Recensione, Thriller

MAN IN THE DARK

Titolo OriginaleDont' Breathe
NazioneU.S.A
Anno Produzione2016
Genere
Durata90'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Rocky, Alex e Money sono tre giovani criminali che si divertono a svaligiare gli appartamenti sorvegliati dalla security del padre di uno di loro. Hanno le chiavi e i dati di chi vive in casa, ma non tutto fila sempre liscio. A mettere nei guai il terzetto sarà il colpo tentato ai danni di un vecchio veterano della Guerra del Golfo, un uomo reso cieco dal conflitto ma divenuto ricco grazie al risarcimento ottenuto per la morte della figlia. Il colpo sembra facile, ma l’invasione domestica si trasformerà in un incubo.

RECENSIONI

A due anni da It Follows, Man in the Dark di Fede Alvarez riporta l’horror americano per le strade di Detroit, città/rovina i cui sobborghi abbandonati si confermano la materia prima ideale per la costruzione di un immaginario post-apocalittico profondamente politico.Del resto nella storia americana Detroit è stata una delle città più colpite da crisi e infauste scelte economiche; a partire dalla Reaganomics negli anni Ottanta, che contribuì a ridurre uno dei capisaldi dell’industria pesante americana in uno tale stato di degrado e disoccupazione e criminalità che i media trasformarono il suo soprannome da Motor City a Murder City.Digressione storica? Non proprio, perché anche di questo parlava Mitchell nel suo splendido teen-horror – citando la celebre 8 Mile Road per calare la fuga adolescenziale dei suoi protagonisti in un parco macerie dovuto all’irresponsabilità del mondo adulto – e da quelle stesse macerie parte Alvarez, giovane promessa del genere americano (e caso più unico che raro di talento emerso dal piatto magma degli horror “prodotti da”). Del resto che Alvarez sapesse girare si era già capito con il remake de La casa, riscrittura fedele nello spirito ma radicale nell’aggiornamento della violenza. Da quella casa nel bosco il giovane regista uruguaiano si divertiva ad interagire con la tradizione in un virtuosismo in bilico tra omaggio e rivisitazione estrema, senza perdere un gusto particolare per la resa claustrofobica e labirintica dello spazio. Lo stesso approccio guida la stesura di Man in the Dark, che ripropone uno scontro domestico tra degli incauti visitatori e un male sepolto in cantina. Il setting però si trasferisce dal bosco alla periferia abbandonata di Detroit, città fantasma che negli anni della crisi economica e dell’eterno conflitto mediorientale si è trasformata in un ambiente urbano desertificato, congelato in una prospettiva scenica evidentemente post-bellica. Per l’appunto, politica. Come interpretare altrimenti la storia di un veterano del Golfo ormai diventato cieco che si rivela torturatore provetto e carceriere malato?

Alvarez gioca con le regole e i codici del genere sulla scia di James Wan (ormai magistrale nella manipolazione degli spazi chiusi) ma a smuovere il film è uno sguardo molto più radicale e scomodo nei confronti della società americana. Questa home invasion ribalta i canoni dell’aggressione domestica, virando nell’incubo di una vittima che si rivela carnefice, mentre una casa isolata diventa una prigione senza vie di fuga, trappola abbandonata in una ragnatela di strade morte.Il meccanismo messo in moto permette ad Alvarez di sviluppare il film lungo due piani paralleli: quello ludico e quello retorico. Man in the Dark è infatti il cubo di rubik di chi sa maneggiare l’horror come una casa dei giochi, allestimento scenico di effetti e stratagemmi anzitutto spaziali. Qui Alvarez riprende quanto fatto per La casa e ne sviluppa le premesse all’interno di un altro sottogenere, vivisezionato nelle sue soluzioni da celebrare e poi riassemblare.
Il gioco metalinguistico però si evolve in una critica politica a dir poco frontale, degna del più radicale horror degli anni Settanta. Il veterano cieco di Stephen Lang infatti incarna tutta la violenza psicotica e il sangue rappreso di un certo braccio armato dell’esercito americano. Nel suo scantinato labirintico dotato di prigione improvvisata è facile rivedere le immagini shock di Abu Ghraib, le gesta immortalate di altri torturatori in mimetica che tengono al guinzaglio feroci cani da caccia. Il parallelo è evidente ma Alvarez non si accontenta; sul cortocircuito generato dalla prigionia sotterranea il film getta come benzina l’atroce e malatissima sequenza dell’inseminazione artificiale, lungo la quale le movenze di Lang seguono il più disturbante degli accoltellamenti.
Cosa resta però di questa violenza nascosta, del rapimento e della tortura, dello stupro e degli omicidi? Ben poco. La chiusura del film è un evidente processo di compravendita messo in atto dalle forze di polizia: i soldi dell’uomo in cambio della scomoda verità, sepolta in periferia e così dimenticata. O meglio, redacted.

L’uruguaiano Fede Alvarez, sempre in coppia con lo sceneggiatore Rodo Savagues, ottiene ancora la fiducia del produttore Sam Raimi dopo il rifacimento di La Casa: gira in studi di posa ungheresi un thriller che non dà tregua nell’impianto di suspense e negli usurati stereotipi, dal background della co-protagonista con madre alcolizzata, sorellina da difendere e patrigno inaffidabile, al cliché dell’aguzzino che cade e si rialza per fare più paura, dalle scorciatoie narrative (il co-protagonista erroneamente creduto morto; il modo con cui sfugge alla cesoia da giardino) agli stilemi discutibili se non poco furbi (inquadrare armi e utensili che verranno usati in seguito). L’alibi del sottogenere “terrore in casa”, Panic Room & co., fa chiudere un occhio (due, per solidarietà con Stephen Lang) sul clonato espediente motore, La Casa Nera che diventa un Terrore Cieco ribaltato o un Occhi della Notte all’eccesso (effrazione e sottostima dell’inquilino cieco), con Lang per lo più senza battute e, per fortuna, implacabile (perché i tre ladruncoli sono volutamente insopportabili). Alvarez ama il ‘torture porn’, in questo caso anche il filone (primo) Wolf Creek con estratti da Cujo, e ha talento nelle variazioni dell’architettura di una dimora labirintica (la cantina infinita, il condotto d’aereazione) e nel rinnovare i rudimenti con cui si filma la paura (questione di montaggio, punti di inquadratura, apparizioni improvvise, tensione da non udente congelato davanti al non vedente). Notevole la scrittura dell’ansia nella scena al buio in cantina con effetti agli infrarossi. Il titolo italiano riprende quello di lavorazione del film, ma l’originale “Non Respirare” rende meglio l’idea.