TRAMA
Nella piccola isola greca nella quale vive con la madre, Sophie ha un sogno: farsi condurre all’altare dal padre che non ha mai conosciuto. Alla vigilia delle sue nozze invita, all’insaputa della madre, i tre uomini che la donna freequentava all’epoca del suo concepimento.
RECENSIONI
Il pallino del musical, gli ABBA (il versante maschile del quartetto, ad essere precisi, che rappresenta anche la parte compositiva dello stesso), lo avevano sempre avuto e, dopo lo scioglimento, erano anche riusciti a realizzarlo (Chess, su libretto di Tim Rice, grande successo a Broadway). Ma quello che era diventato un gruppo icona del pop (e il prodotto svedese di maggior successo di sempre, con la Volvo) con milioni di copie vendute in ogni dove (scandalo: non erano inglesi né americani) e un culto che ha pochi eguali negli annali della musica frivola, il suo musical, quello costruito sui suoi hit notori, lo ha visto realizzato solo in tempi recenti. Grande successo a teatro, Mamma mia! approda adesso sugli schermi, per la regia di Phyllida Lloyd, che ne aveva già curato la versione sul palcoscenico, e sbanca i botteghini. A ragione? Si direbbe di sì perché trionfo ottenuto sulla base di un format abbastanza nuovo: prendi un paio di glorie hollywoodiane [1], deglamourizzale (me la si passi) a dovere, mandale nella vecchia Europa a divertirsi e, incrociando le dita, spera che il loro divertimento contagi lo spettatore. E' su questa semplice ricetta che si basa la freschezza di un prodotto che ad esaminarlo nelle sue componenti sembrerebbe dichiarare zero elementi zero al suo attivo: da un lato la musica marcata dalla formula ABBA (canzoni leggere leggere, ma compositivamente tra le più malandrine di sempre: grande cura per l'aspetto vocale, suoni sempre in linea coi tempi con un occhio all'avanguardia elettronica - ma senza mai esagerare -, testi di subliminale provocazione) che si attagliava perfettamente al palcoscenico, dall'altro un musical scritto per legare i vari pezzi e che gioca sul tema del confronto generazionale con molta semplicità, senza avventurarsi in riflessioni sui massimi sistemi, ma non sfociando mai nell'aperta banalità [2].
Il prodotto che ne risulta stupisce per il registro visivo: profilo basso, spirito quasi casareccio (ricorda certi adattamenti shakespeariani del Branagh più trasversale e divertito), nessuna concessione allo spettacolo di lusso, un pugno di attori su un'isola che improvvisano lo show e sembrano spassarsela sul serio. Non è un caso che la regista insista su primi e primissimi piani, quasi mai concedendo la visione d'insieme: il dato coreografico è nullo, lo spettacolo si affida quasi tutto al montaggio e rende conto di un lavoro che si concentra sulle espressioni, sul canto, sulle trovate. Il risultato, insomma, non è affatto disprezzabile se si è disposti ad accettare proprio questo dato del ruspante dilettantismo come la caratteristica dell'opera e non come una sua debolezza, facendoci soprassedere, com'è giusto che avvenga in un musical, sulla labilità della trama, la noia latente e il debole intrico di equivoci sempre telefonati e presto dissipati, per concentrare tutto nel rimarchevole momento performativo: tutti i grandi successi degli ABBA (Money, Money Money - con una velata , e direi dovuta, citazione di Priscilla, la regina del deserto - , SOS, Dancing Queen, Gimme gimme gimme [3] etc) vengono presentati abbinandoli a trovate sceniche mai geniali, ma sempre piacevoli, incastonati in una struttura che si rifà alla commedia greca classica e che rende conto dell'impatto che il gruppo svedese ebbe nell'immaginario dei 70 (la performance del trio Streep - Baranski - Walters rievoca le mitiche mise camp che fecero la fortuna degli ABBA, divenuti inevitabili idoli della comunità LGBT - in questo senso il personaggio gay di Harry va letto come riferimento alla mitologia germinata dal gruppo -).
Mamma mia! si rgge, peraltro, sulle spalle di Meryl Streep: ancora una volta, l'americana dimostra un eclettismo, una capacità comunicativa, un'ironia e un talento che lasciano basiti. Si prenda per tutti quello che è il momento memorabile del film: Donna spiega a Sam che indietro non si torna, che il passato è passato e canta The winner takes it all; Streep è di fronte a Brosnan, alle pendici di una collina: non c'è un accidente scenografico a supportarla - sullo sfondo il mare - solo un drappo rosa che l'attrice tormenta a dovere; la Streep canta la struggente canzone mentre la macchina da presa carrella a più non posso giocando malamente con le inquadrature, come in un brutto videoclip, per innervare un po' di movimento a una scena sconsolatamente piatta (Brosnan è un manichino che fa le smorfie e incarna 'il dispiaciuto'); qualunque altra attrice, in un contesto così rigido e con presupposti drammatici così pretestuosi (per non dire inesistenti) sarebbe apparsa ridicola nell'inscenare il doloroso momento: lei no, anzi se ne approfitta per mangiarsi il film in quattro minuti netti.
Operazione in qualche modo simile a quella di Across the Universe di Julie Taymor: co-protagoniste sono una serie di canzoni dello stesso gruppo musicale pop/rock che diventano diegetiche. Ma il risultato è completamente diverso, come è giusto che sia, dato che è diverso il tipo di musica di riferimento: là i Beatles chiamavano poesia e creatività, qui c’è la gaia superficialità dell’Abba–mania, che aveva infettato anche Le Nozze di Muriel. Phyllida Lloyd, veterana del musical inglese (compreso questo, di culto, che risale al 1999, con libretto di Catherine Johnson, qui sceneggiatrice), compone infatti una commedia buffa, trascinante nel suo impatto emotivo/ottimista/danzante, senza voli pindarici o surreali, ma con il giusto equilibrio fra kitsch, pathos, glam, epica e adrenalina che appartiene anche alle canzoni di Benny Andersson (Abba-man qui produttore esecutivo, mentre Bjorn Ulvaes offre un cameo nel finale come dio greco). Per quanto con spunto non originale (la madre che non sa chi è il padre: vedere Buona Sera, Signora Campbell con Gina Lollobrigida), la commedia degli equivoci funziona, la location è meravigliosa (Kalokairi è un nome di fantasia per le isole Skopelos e Skiathos), i colori sono allegri e sgargianti, le amicizie spensierate e generazionali/di genere (3 a 3) e non mancano i cori da “tradizione” (i locali canticchiano insieme ai protagonisti e sono irresistibili quando si uniscono alle danze) e citazioni varie da Aristofane & co.