TRAMA
La principessa Aurora della Brughiera e il principe Phillip di Ulstead vogliono sposarsi, garantendo pace e prosperità ai regni finalmente uniti di fate e umani. Le relative madri(ne) disapprovano.
RECENSIONI
I know you, the gleam in your eyes is so familiar a gleam
Se si esclude il paio di timidi esperimenti di fine millennio ((Cento)uno con tanto di puntuale sequel fallimentare), in testa alla carica di remake (poco)live-(tanta CG)action Disney si può senz’altro posizionare Alice in Wonderland (2010), per quanto di remake esattamente non si tratti (Alice ritorna da adulta nel Paese delle Meraviglie dopo una decina d’anni di adolescenza e sessanta di progressi tecnologici, evoluzione (serialtelevisiva?) del gusto ed esaurimento di idee) e rimanga iniziativa pilota e isolata fino al 2014. È infatti solo con Maleficent che tale pratica si sistematizza – cristallino progetto di definizione dell’identità societaria, svincolato da firme ingombranti e altrui stili troppo riconoscibili –, promettendo uscite regolari e regolarmente premiate da affluenze incoraggianti e anagraficamente trasversali, i bimbi attratti dalla fiaba, i meno bimbi dalla sua rivisitazione gotica con immancabili scontri marveliosi, i giovani che ricordano le videocassette consumate, i non più giovani che al tempo trascinarono i genitori in sala e ora godono dello stesso alibi. Ed è Maleficent di tale pratica autentico manifesto, praticamente autoproclamantesi tale (“Let us tell an old story anew, and we will see how well you know it”), non tanto remake quanto retelling, che dietro lo svecchiamento di facciata e non del tutto esente da pinkwashing nasconde la cara vecchia genitoriale ripetizione variata delle stesse storie, il (stre)gattopardiano reinventarsi reiterandosi, vera quintessenza della Madre/Signora di tutte le case di produzione, che non a caso accoglie sotto le sue ali i Marvel Studios dalla (in) serialità fatta a poetica, serializzando poi la stessa in ambito Lucasfilm.
Più che Alice attraverso lo specchio, sequel del succitato film di Burton, è allora Maleficent – Signora del male a poter fungere da testo privilegiato dove leggere i più recenti sviluppi del marchio, in quanto perpetuazione esponenziale di un prodotto – la fiaba edulcorata e massificata e il connesso atavico istituto delle Principesse Disney, più potenti di qualsiasi Avenger o Jedi – tanto longevo e iconico da costituire letteralmente il marchio stesso, che dal 1985 accompagna al nome del fondatore l’immagine di un castello a metà tra quello di Aurora e quello di Cenerentola. Se allora l’incipit del precursore era squisitamente programmatico – con un logo variant, sfoggiante il detto castello nelle sue fattezze diegetiche, che dalla title card sconfina grazie a un piano sequenza nel film stesso, mentre la narratrice comunica l’intenzione del retelling(/rebranding), inevitabilmente riferibile agli studios di cui si sta inquadrando il simulacro architettonico –, anche questo nuovo capitolo conferma fin dalle battute iniziali la sua vocazione. Dopo una falsa partenza oscura dove si preserva il gioco del movimento di macchina che dai titoli conduce senza interruzioni alla prima scena – fingendo però un reset immemore del primo film, con il castello Disney canonico e non diegetico e una Maleficent di nuovo degna del suo nome –, lo spettatore è subito rassicurato dal risorgere puntuale e pedissequo del medesimo long shot aereo d’apertura, che si concede giusto un avvitamento all’altezza del castello di Aurora – quasi a ribadire il falso ribaltamento di prospettive e l’invece effettiva ciclicità (solare) dell’operazione – per poi presentarne l’esatto riflesso nel castello di Phillip. Intanto la solita narratrice fa proclami di duplicità (“Twice upon a time”) e riporta la storia alle premesse del primo film richiamando il pregiudizio fondante (“Maleficent was evil once more”), stavolta tutto diegetico ma chiaramente equivalente a – o addirittura origine di – quello extra- che aveva garantito l’impatto del colpo di scena nel 2014 – sarebbe stata la regina Ingrith a scrivere per prima la storia come l’abbiamo fallacemente conosciuta nel classico del 1959. L’apoteosi del retelling: l’evoluzione connaturata allo status di sequel che soccombe all’eterno ritorno dell’uguale.
Al netto di fake news e hate speech di ostentata attualità (il pericoloso incantesimo della parola che vince e plasma la realtà, una volta di più celebrazione dell’eroica Disney, somma ministra di storie buone), il per così dire nuovo film rimane dunque una parabola di rinascita precisamente ricalcata su quella della pellicola madre; del resto – dopo le prove generali di Alice e relativo sequel e il primo capitolo sulla strega dagli zigomi affilati come rasoi –, in cima ai writing credits stavolta condivisi con due mestieranti decisamente meno noti, torna il nome di Linda Woolverton, prima donna ad aver scritto un lungometraggio per gli studios (La bella e la bestia – sarà poi co-sceneggiatrice de Il re leone e collaborerà a Mulan) e specialista in risvegli e ri-Animazioni fin dal cosiddetto Rinascimento Disney, di cui fu certamente tra i principali fautori artistici (il documentario del 2009 che ne ricostruisce gli sviluppi rivela una volta di più l’affezionata identificazione del colosso di Burbank nella fiaba di Perrault: il suo titolo è Waking Sleeping Beauty). Quello che però non è possibile in alcun modo ripetere è purtroppo per Woolverton il trucco più memorabile e probabilmente vitale del primo film: la sorpresa (o quantomeno la novità) di scoprire Bella Addormentata infine risvegliata, non tanto Aurora – mero strumento, se non talvolta accessorio, la cui monocorde inconsistenza non permette di distinguere tra sonno e veglia (e infatti dorme sì e no per una manciata di minuti, altro che cent’anni!) – quanto la sua antica nemesi Maleficent. Principessa sterilmente mascolina (“I hate children!”) prigioniera dei suoi stessi rovi, angelo caduto che nell’unione con la figli(occi)a ritrovava sé stesso e la propria natura aerea e materna primigenia, ella rinasceva all’idillio iniziale completa (rebis androgina, “both hero and villain”) in quanto celebrante le sue stesse incestuose e filosofalmente dorate nozze alchemiche con la (neo?)regina con-sorte (scena particolarmente significativa nel suo preferire al matrimonio canonico – Phillip, uomo inutile, rimane sullo sfondo, ritardatario, vacuamente sorridente, tanto sacrificabile da essere sostituito nel casting del sequel e rimanere anche lì appropriatamente superfluo – la ciclicità a suo modo ri-voluzionaria del ritorno a un matriarcato primordiale [1]).
In mancanza dell’high concept si finisce con lo sposare una prudente e coerentissima regressione su ogni fronte, i cui risultati però – va da sé – tendono a non eguagliare quelli del predecessore (che già non faceva certo gridare al miracolo – e non aveva un Joker pigliatutto a monopolizzare attenzione e botteghino). Il regista Robert Stromberg, allora discreto esordiente (ma già scenografo due volte Premio Oscar per Avatar e – no wonder(land) – l’Alice di cui sopra), e l’esperto compositore James Newton Howard (nessuna statuetta, ma otto nomination per lo più meritate) vengono rimpiazzati da due epigoni qualsiasi, il piratesco Joachim Rønning – timoniere che raramente guadagna la cresta dell’onda e piuttosto ristagna nella convenzione più facile, senza riuscire ad annacquare a sufficienza l’innaffiata prepotente e stavolta davvero nauseabonda di computer grafica francamente mediocre eppure spudoratamente esibita – e il perpetuo assistente Geoff Zanelli, che eredita i temi del precursore e vi aggiunge così poco e svogliatamente del suo da meritare lo stesso oblio delle nuove creature alate che i suoi sforzi vagamente più ispirati accompagnano (i titoli di coda invece propongono, in luogo del crepuscolare Once upon a dream di Lana Del Rey, un biascicato e ingenuo You can’t stop the girl di Bebe Rexha). Qualche intuizione suggestiva (le esplosioni rosso rubedo al posto del più ortodosso incendio di Maleficent) e qualche infelice (la Fantasia BWV 542) corredano una battaglia finale di durata raddoppiata ma senza pari iniezione di adrenalina, indice di una generale prolissità che aggrava la discussa mancanza di sorprese. Il cast è arricchito da guest star per mantenere alta l’attrattiva inevitabilmente inferiore di un sequel, ma la scrittura e la direzione dei personaggi rimangono esclusivamente funzionali al tratteggio di Maleficent e del suo arco (unica a poter godere di sfumature – molto meno che nel primo film – in quanto sintesi di bene e male) e dunque spesso caricaturali o graniticamente archetipiche. Particolarmente e colpevolmente trascurato il personaggio di Aurora, ancora principessina candida inguaribilmente manipolata, di cui era invece lecito augurarsi uno sviluppo in autonomia o addirittura opposizione rispetto a Maleficent – senza pretendere di farne il conflitto cardine del film, con Maleficent signora del Male in quanto in aperta rottura con la sua metà buona, prima dell’irrinunciabile ricongiungimento finale –, a maggior ragione se si considera quanto Elle Fanning brilli, con briglie più lunghe e fan(n)tini più saggi (NWR, Coppola padre e figlia, Mills, Mitchell, Allen), proprio quando può giocare internamente al plot sul sovvertimento improvviso della costante angelica, immacolata, ingenua e salvifica dei suoi personaggi, da vent’anni indissolubilmente connaturata alle sue fattezze e alla precocità della sua carriera, ma ora decisamente insufficiente per esprimere il suo talento ((non) si vedano i terribili Mary Shelley e Teen Spirit).
Sul piano narrativo si rimasticano idee e simboli del prequel, optando spesso per una più facile leggibilità. Dall’Eden sempreverde iniziale Maleficent precipita, per fiducia malriposta, nella morte terrena (o acquatica) via ingannevole furto/castrazione (là erano le ali, qui direttamente la figlia consustanziale, aspetto di diBinità); segue una prima parziale rinascita nella riscoperta edipica delle proprie origini, là in maniera se si vuole peculiarmente inversa/circolare, con Maleficent che si riconosceva in un’Aurora materna nutrice di un cerbiatto – come era stata lei stessa all’inizio del film – e quindi ammetteva costei al corteggiamento nel suo recinto virginalmente impenetrabile (prima umana dopo il suo infausto amore d’infanzia), qui invece con un più classico annegamento da cui Maleficent risale al Nido uterino bianco albedo dove la sua stirpe vive embrionalmente confinata e attende lei per rompere le acque e (ri)venire alla luce (aurorale). Ma è solo abbracciando l’incontro annichilente con l’arma enantiodromica – forgiata nell’inconscio delle viscere della terra dal Falso Genitore ladro – che è possibile risorgere, trasformati: là avveniva in un’inquadratura oculatamente ambigua, dove l’aerea Maleficent riacquistava le ali nel momento stesso in cui sembrava essere passata a fil di ferrea spada, mentre la metamorfosi si manifestava più sottilmente in Diaval, sua emanazione wotanica (corvo - lupo - cavallo - drago uroboro); qui le metafore sono decisamente più urlate: Maleficent, unta messia del suo popolo dal loro sciamano, si immola con l’essenza di morte direttamente estratta dalle tombe delle fate e rinasce letterale Fenice dalle proprie ceneri, (auto)fecondate da un’osmosi con la figlia stavolta più castamente lacrimosa (se si vuole, restituzione ciclo-idrologica della rugiada alchemico seme solare con cui Maleficent aveva allattato, per mezzo di un fiore, l’infante Aurora dalle dita di rosaspina – curioso il binomio rose/rosée nel francese di Perrault –, da quel momento creatura acquatica sempre sguazzante in stagni di inconscio). Torna il fuso (dopo un giro di arcolaio), ma solo per inibire con la sua distruzione la già molto velata carica sessuale (El(l)ettrica?) del primo film (a poco valgono sorrisetti e occhiolini alludenti a una gravidanza che sappiamo impossibile – l’unica Principessa madre è Ariel, eminentemente ovipara e per giunta solo in home-video): simbolo perspicuamente fallico dell’avvento sanguinante di una maturata femminilità, temuta e osteggiata dai genitori che perciò finiscono col tessere le catene di una dormiente e mai sbocciata puella aeterna, era nel primo film maledizione che Maleficent rivolgeva in fondo a sé stessa (fuso come doppio altrettanto metallico della lama che l’avrebbe trafitta) e che infatti non poteva infrangere senza riconciliarsi con la propria femminilità, ma fungeva anche da discreto rovesciamento del patriarcato mitopoietico – addomesticato e innestato sull’arcolaio indistruttibile e sempre redivivo (perché fertilmente ciclico?), millenario fardello femminile, finalmente trionfante sulla spada. Nel nuovo capitolo il fuso è dunque in balìa della regina Ingrith, che così dimostra chi porta davvero i calzoni nel suo castello (se si sorvola sull’incongruenza di una magia mai spezzata e ora in grado di addormentare un uomo del tutto estraneo agli eventi che avevano portato alla sua infusione), per poi essere incenerito da Maleficent appena prima del matrimonio (perciò?) asessuato e giammai androgino e individuante, esplicitamente moraleggiante e in nessun modo emancipatorio, contentino didascalico per tradizionalisti e specchietto per allofenici che imbelletta e distrae dalla vera chiusura del cerchio: l’ascesa di Maleficent all’immutato soglio originario di regina e madre di ogni cosa, fiera conquistatrice di ogni regno e popolo che gli sceneggiatori si premurino di metterle davanti, affettuosa tutrice alla ricerca instancabile e rapace di nuovi figli da adottare (le malelingue diranno che Angelina Jolie nemmeno deve fare finta).
…chacun lui répondit selon qu'il en avait ouï parler
(Charles Perrault, La Belle au Bois Dormant)
Dichiarazione spavalda o gioco innocente, il gesto con cui ma mère la Disney ha anticipato di mezza stagione l’uscita di un film così programmatico e autorappresentativo facendolo debuttare un mese prima del suo servizio streaming Disney+, acquista allora un certo significato, alla luce di tutta questa forse troppo leziosa ma inevitabile psicanalisi. Ultima arrivata al predatorio banchetto battesimale del nuovo fertile mercato – agguerrita, temutissima, mai invitata –, essa ha avuto tutto il tempo per studiare buone maniere e piani di dominazione al (lieto) fine di sottrarre – rivitalizzando e giammai mutando le sue narrazioni – i regni eterei del web al disincanto di con(et)fliggenti regine Ingrith, sicura della sua vittoria sulla lunga distanza, mietendo pargole sottoscrizioni forte di un Sé societario formatosi in decenni di grandi opere resurrettive e sempre più totale in quanto a fasce di pubblico e aree di attività. Il progetto finale di un monopolio della narrazione fondato su un unico sconfinato ipertesto transmediale dell’intrattenimento, da cui escludere le voci contrarie (a mezzo trasformazione in mute capre) – ancor più preoccupante se si considera la libertà illusoria di Aurora, suo oggetto e recipiente primario – è certamente uno scenario iperbolico il cui approfondimento risparmieremo al lettore, ma la sola possibilità di ipotizzarlo è già un risultato soddisfacente per un film di questo calibro e uno stimolo sufficiente per tremare tremare almeno un po’ di fronte all’eterno ritorno della strega delle storie.
The (tale-)trust will set you free / You can’t stop the firm.
[1] Ripropongo il (sacrilego?) videoessay che segnalavo nell’analisi di Suspiria, raffazzonato e giocoso catalogo di presunte o intraviste, spesso probabilmente fraintese, comunioni – dal curioso all’inintelligibile – tra il film di Guadagnino, Maleficent e The Neon Demon.