TRAMA
La relazione di una coppia viene messa a dura prova quando alcuni inattesi ospiti si presentano a casa loro, gettando nello scompiglio la loro tranquilla esistenza.
RECENSIONI
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Dei festival, della cinefilia
Finalmente un’opera che mette in gioco cinefilia e critica, che si può affrontare disarmati e la cui analisi può scartare formule precostituite: ci sarebbe di che essere contenti. Invece no: in troppi casi proprio non ce la si fa a bandire i rassicuranti schemi. E tanti cinefili e critici si rifiutano di mettere da parte l’inevitabile pregiudizio che deriva dalla conoscenza dell’opera dell’autore, a cui si riconduce tutto un ragionamento, pregresso alla visione, che inquina il post-visione. Così ci s’inalbera o ci si esalta solo perché quello schema sta saltando, perché ciò che si guarda non ossequia le aspettative. Di ragionarci davvero non se ne parla, tutto si riduce a un sommario confronto tra i propri parametri, lucidati e agghindati di tutto punto, e quello che offre il film. Quanto detto vale in entrambi i casi limite, ribadisco: in quelli in cui si urlerà alla boiata e in quelli in cui si applaudirà inneggiando al capolavoro (per la stessa ragione: il regista non ha rispettato i patti - ovviamente non ci sono patti, ma il cinefilo pensa di averne stretto uno con l’autore -). Ora, sono anni che le stesse persone frequentano i festival e molte (troppe) ancora non hanno imparato che, di fronte a film come questi, trattenersi dallo sputare la prima impressione è cosa saggia, ché nella trappola dei giudizi a caldo sono cadute firme prestigiose in epoche in cui, peraltro, internet ancora non esisteva e qualche ora in più per rimuginare era concessa. Adesso che il social chiama, figuriamoci. Così quei film che sfuggono alla facile categorizzazione diventano macchie di Rorschach in cui ognuno vede quello che vuole, prevalentemente se stesso, e lo vomita fuori all’istante: dalla poltrona o sulla tastiera. Intendo dire che urlare «vaffanculo» all’innesco dei titoli di coda di mother!, come è accaduto a Venezia (tra le urla e i «vergogna» - di cosa non è dato sapere -) non dice nulla del film di Aronofsky e tutto del profferente. Come al solito non si guardano le cose per quelle che sono, ma per come le si vorrebbero. Non si parte cioè dal fatto che nel film c’è disordine, ma ci si chiede, stizziti, perché non c’è ordine. Non ci si fa venire in mente che il caos è ciò di cui tratta il film - Aronofsky (paradosso, attenzione) è molto chiaro nella sua volontà di mettere in scena questa confusione - eppure, invece di prenderne atto, il cinefilo che grida vergogna sta lì a lamentarsi del casino (che è come lamentarsi, guardando un western, delle pistole che sparano).
Né leggendo quello che costoro scrivono si fanno grandi passi avanti. Perché, insomma, hanno voglia a dire che mother! è allegorico, a parlare di metafore telefonate: nessuno che ci comunichi che numero dobbiamo formare per farle squillare. Nessuno, insomma, che ce ne spieghi mezza, che ci esponga come funzionino nel corpo dell’opera, che quasi viene il dubbio che quello che costoro recitano sia un semplice sentito dire che si tramanda per istantanea tradizione orale, l’eco di un’avemaria che si continua, per puro riflesso, a salmodiare. Meccanicamente e senza conoscerne il senso. Nessuno, per esempio, che azzardi un pensiero sull’ultima immagine del film (perché renderebbe il discorso problematico, presupporrebbe una meditazione, e addio all’immediatezza del vaffa o del «capolavoro!»). Ciò detto mi sono buttato in mother! senza salvagente, mi sono fatto trascinare dalle sue onde e, sbattuto dalla marea sulla terraferma, soddisfatto, ho cominciato a pensarci e a ripensarci. E a fare quello che Darren Aronofsky voleva: elaborare una teoria, intraprendere, all’interno di quel film, un percorso di lettura. Valido? Non importa, è bello che ci siano film che ti permettono di camminarci dentro in libertà (una libertà vigilata perché Aronofsky i confini del suo racconto li conosce benissimo e li rende visibili - per chi ha occhi per guardare -). Di questa possibilità un cinefilo normale dovrebbe esultare, al di là del giudizio positivo o negativo che vorrà esprimere sull’opera [1].
[1] Postilla: è di questi giorni un lungo intervento di Martin Scorsese su Hollywood Reporter a proposito del film (e non solo) in cui, tra l’altro, si afferma che: «I film di qualità dei veri registi non sono fatti per essere decodificati, consumati o istantaneamente capiti. Non sono fatti nemmeno per essere immediatamente apprezzati. Sono fatti solo perché la persona dietro la macchina da presa doveva farli».
La creazione
mother! guarda alla creazione artistica come a un ciclo che si rinnova continuamente. All’inizio del film un volto di donna brucia (come avverrà per il volto di Jennifer Lawrence alla fine): è la conclusione di un processo creativo che prelude all’inizio di uno nuovo. L’interno domestico - ridotto a uno scheletro ligneo ricolmo di ceneri - pian piano riprende vita: l’immaginazione dello scrittore torna al lavoro, la macchina letteraria si rimette in marcia. Perché la casa non è altro se non l’opera dello scrittore nel suo farsi e Jennifer Lawrence l’anima di quel focolare, la nuova ispirazione che, all’interno di esso, sostituisce la precedente («Io sono chi sono, tu eri la casa»). Dunque un’ispirazione viene, vive e si consuma (destino che segnerà anche la protagonista). E il suo posto viene preso da un’altra.
E così via.
Nel prefinale:
«Dove mi stai portando?»
«Al principio».
madre! (padre?)
Due sono le opere che mi sono venute in mente guardando mother!: la prima (riferimento che mi sembrava ovvio fino a quando non mi sono accorto che nessuno ne faceva cenno) è un film, Providence (1977) di Alain Resnais: anche lì abbiamo a che fare con uno scrittore-demiurgo e col suo mondo letterario in opera, anche lì nella rappresentazione intervengono ricordi e tracce di realtà che si travestono con abiti di fantasia, si trasformano, si ammantano di possibilità, si modificano a seconda delle intuizioni di Clive Langham (John Gieguld) e delle direzioni capricciose che decide di dare al racconto che sta creando. Soprattutto Providence è il nome della residenza del protagonista, il luogo in cui sta immaginando quello che vediamo (oltre a costituire un riferimento alla provvidenza come istanza sovraordinante della narrazione - anche se, e questo rileva anche nel caso in questione, i suoi personaggi sono liberi di agire contro di lui, secondo la logica di un inconscio sempre acceso -). La seconda opera che mi è balenata in testa è letteraria, Mantissa (1982), il penultimo romanzo di John Fowles (autore enorme almeno quanto la sua sottovalutazione) che è fondato (anche se in maniera antitetica rispetto a quella del film di Aronofsky, visto che è dominato da un’ironia caustica) sul rapporto dialettico tra uno scrittore e la sua musa. E ambientato nella mente del primo. Una novella che, come tutte quelle del suo autore (e come il film di cui trattiamo), richiede una piena apertura da parte del suo fruitore, la disponibilità a calarsi nel gioco del letterato, ad accettare di maneggiare uno sfidante congegno di multipli sensi, significati e chiavi di lettura (Fowles è un manipolatore, proprio come Aronofsky). Una novella, non a caso, stroncata quasi unanimemente da una critica esagitata in modo sospetto: il Boston Globe, tanto per citare qualcuno, la liquidò come an idiotic story, cosa che, alla luce dell’oggi festivalier-veneziano, mi fa riflettere moltissimo. Madre è dunque l’ispirazione (anzi: L’Ispirazione) che dà vita alla poesia, l’impulso che genera l’arte. Ma madre è anche la Parola, che è ciò che crea il mondo del poeta (quindi sulla locandina madre è una scritta vergata a mano); e madre è Jennifer Lawrence, certo, ma anche Javier Bardem, il demiurgo, il principio primo e il creatore ultimo (che per questo appare da solo - sotto la scritta mother! - nelle locandine alternative del film).
E quel punto esclamativo? È l’unico avvertimento al pubblico che si concede il regista. Per il resto lo abbandona a se stesso. Il cristallo è il nucleo della poesia che viene generata dalla mente del letterato: bruciata la vecchia ispirazione, alle prese con una nuova, è quello che rimane del precedente travaglio, l’essenza della sua arte. È il rapporto tra il letterato e la sua vocazione, una vocazione che questi cerca di mantenere pura, intatta: l’ispirazione lo sa bene e la preserva, i fantasmi che il poeta convoca quando è al lavoro, invece, finiscono con l’invadere il campo e con l’inquinare l’intento creativo, dunque ne mettono in pericolo l’integrità.
La madre è appena nata
I personaggi, ovviamente non hanno nome, essendo mere entità mentali: Jennifer Lawrence è Mother, Javier Bardem è Him, Ed Harris è Man, Michelle Pfeiffer è Woman eccetera - figure prive di psicologia perché ne sono impastate, con denominazioni ambigue onde attagliarsi a molteplici interpretazioni (a cominciare da quelle bibliche) -. La protagonista, la nuova ispirazione, si sveglia nella casa e vi si muove come se la vedesse per la prima volta (è appena nata, in fondo - Man: «Pensavo fosse sua figlia»: lo è, in effetti), la gira disorientata, guarda cosa c’è all’esterno. E la casa (che è il procedimento di composizione poetica), è naturalmente nelle sue mani, nelle mani di questa illuminazione in forma di donna che la ricostruisce, la arreda e sceglie per le sue pareti la tinta che ritiene opportuna («Lei ha rifatto la casa» dice il poeta allo sconosciuto e no, non poteva costruirne una nuova perché, dice Mother alludendo al marito, «è casa sua»). L’insieme di queste stanze costituisce un organismo vivo (le maniglie si staccano, i pavimenti trasudano, le cose cadono), perché l’edificio traduce in immagine un processo: dietro le pareti pulsa l’attività cerebrale del poeta. E non usciamo dalla casa perché non c’è altro, ovviamente, non c’è che l’abitazione e il terreno disabitato che la circonda. Spazio e tempo di mother! sono da misurarsi in base al solo parametro possibile, stanti le premesse: quello mentale. Quando il poeta sta per cominciare a scrivere bussano alla porta e l’uomo lascia entrare lo sconosciuto. Poi farà entrare sua moglie: sono pensieri che arrivano, si propongono, abitano letteralmente il making of dell’opera. Pensieri che, con tutta probabilità, sono connessi all’esperienza di vita dello scrittore, riflettono la sua storia familiare, le sue piccole e grandi tragedie, i conflitti vissuti in passato, esperienze che nel ribollio mentale si enfatizzano, si confrontano, collidono (cinefili che vi masturbate con Godard e a Venezia urlate «vergogna», riguardatevi Providence, please). L’opera riflette sempre il suo creatore, contiene, filtrate, le sue conoscenze, si mescola alle sue fissazioni (la Genesi: Adamo ed Eva, Caino e Abele), e lo scrittore è pronto a farci i conti, a confrontarsi con esse. L’ispirazione vive l’arrivo di questi pensieri, possibilità, stimoli, come un’invasione.
«Non sapevi che aveva una moglie?». No, il poeta non lo sapeva fin quando non ci ha pensato. «Che ci fa qui?» chiede la padrona di casa al figlio dello sconosciuto, appena questi sopraggiunge. La risposta è rivelatrice (e beckettiana): «Che ci facciamo tutti qui, no?».
La casa è di tutti
Il poeta è preda dei suoi pensieri, dei suoi fantasmi (e dell’alcol: cos’è quel liquido giallo che avvelena L’Ispirazione, sennò?) e trascura la futura madre che, amando il suo poeta, ne dipende (c’è transfert: «Che Dio ti aiuti») e da cui è destinata a essere abbandonata. Prima però l’artista, regolati i conti coi suoi spettri familiari, la feconda rendendola mother (e lei sa subito di essere rimasta incinta, lo sente: la poesia sta per nascere). Ma una volta che la poesia è in incubazione, l’ispirazione non riesce a capacitarsi del perché il letterato continui a far entrare nella sua casa-opera idee estranee. Tutte le persone che hanno avuto e avranno accesso non pensano affatto di violare uno spazio privato («Apro la porta a nuova vita, a nuove idee»): ognuno di questi soggetti - concetti - idee - chimere sente di avere pienamente diritto di stare in quel luogo dal momento che vi è stato convocato («Il poeta dice che è la casa di tutti») e sente di dover dare un contributo all’opera (allora c’è chi, impossessatosi del rullo, imbianca i muri). Così si spiegano i commenti e le risatine di scherno di coloro che, nella seconda parte, invadono il nido familiare: «Ma che problema hai?» chiede stupito qualcuno a Mother. E quando la Nostra entra in camera da letto e vi trova due giovani che amoreggiano, al suo «Questa è la nostra camera!» le si risponde con sarcasmo: «La vostra camera...».
Il figlio è il foglio
Il poeta sta tradendo lo spirito primario dell’ispirazione e nella poesia ci mette furbizia commerciale (che s’incarna nell’editrice opportunista, che prima loda l’ispirazione - «Sei pronta a sfornare» - e in seguito vuole farla fuori) e voglia di compiacere il suo pubblico (l’orda che arriva ad adorarlo). A quel punto il frutto dell’ispirazione, il bambino che Mother ha fatto crescere nel suo ventre, viene partorito, ma la genitrice non si decide a porgerlo al poeta, perché questi lo consegnerebbe alle istanze sbagliate: protagonismo, egotismo, delirio di onnipotenza. Il poeta è al bivio, l’ispirazione vuole un’opera autentica e sincera, lui è tentato dalla gloria. L’ispirazione è la madre, il poeta è il padre e sul destino della poesia-baby non c’è unanimità di vedute. Intanto il conflitto si scatena, c’è una grande confusione (Fellini e 8½ c’entrano tantissimo anch’essi), è una battaglia quella che si sta combattendo nella testa del poeta: e la casa-opera è oramai un ingarbugliato guazzabuglio, tra lusinghe tentatrici, morali che si risvegliano, distrazioni di ogni tipo, possibili implicazioni filosofiche (religiose, culturali), riferimenti alla realtà sociale e politica (le esecuzioni, la guerriglia - atti terroristici, guerra civile, lager nello stadio: (non) ricordate Providence? -). E il bambino/ poesia, strappato dalle braccia materne, viene dato in pasto a questa folla di contraddittorie intenzioni: fatto a pezzi, divorato. E l’Ispirazione, oramai umiliata, è malmenata, fatta fuori.
Un altro tentativo sprecato, la poesia è un fallimento, la casa va a fuoco. L’Ispirazione muore (probabilmente un foglio - il foglio è il figlio - viene accartocciato e buttato in un cestino).
«Niente è mai abbastanza. Devo riprovarci daccapo, adesso».
Il tentativo è andato in fumo (letteralmente), ma l’arte del poeta (il cristallo) è ancora lì: di nuovo integra. Viene sistemata sul suo sostegno: la casa bruciata si rigenera. Un nuovo processo comincia. Una Nuova Ispirazione si sveglia: un foglio bianco è pronto per essere riempito. Che sia la volta buona?
Inspiration's Baby
Vista da altro punto di vista, quello della superficie, in cui Aronofsky, regista sempre molto brutale, fa bassa (non è un insulto) manipolazione dello sguardo, mother! è storia di una donna sposata a un letterato depresso e che, sottomessa all’egoismo del marito, deve sopportare le sue crisi (che si traducono anche in astinenza sessuale) e il suo bizzoso comportamento che, per pura brama di lusinga e per l’esigenza di stimoli nuovi, lo porta ad accogliere in casa un estraneo prima e la sua famiglia poi. L’invasione (e il senso di oppressione che determina nella donna), vengono resi con gli elementi tipici del dramma psicologico venato di horror (se terrore c’è, è quello tipico dello scrittore: il foglio bianco), ma anche con la maniera propria del teatro della minaccia di Harold Pinter (altro nome che mi sarei aspettato si facesse, ma nisba), pièce crudelissime in cui niente è detto esplicitamente, ma in cui la violenza è in gesti apparentemente insignificanti, in dichiarazioni allusive (ma perentorie), piccoli abusi, irritanti forme di maleducazione (qui: i panni in lavatrice che vengono buttati per terra, ad esempio) [1] e in cui proprio quello dell’intrusione è stratagemma ricorrente attraverso il quale il drammaturgo sovverte l’ordine delle cose e mette in crisi i contesti rappresentati. Allo stesso modo Aronofsky, attraverso una serie di taglienti dettagli e l’uso letteralmente fisico di una macchina da presa abbrancata alla magnifica Jennifer Lawrence (la fotografia è del fedele Matthew Libatique), riesce a costruire attorno alla protagonista una rete asfissiante, a rendere un senso di violazione fortissimo nel quale è molto difficile non identificarsi. Ed esattamente come nel dramma pinteriano, in mother! non si offrono appigli allo spettatore per uscire dalla trappola dell’angoscia, anzi, si tende sempre di più a sbarrare le vie d’uscita (l’ultima parossistica parte: un saggio di messa in scena, tra l’altro). Quando la moglie dello sconosciuto entra nel salone con i bicchieri di limonata in mano, in un secondo il regista ci dice che la donna è stata in cucina, che si è servita da sola, che si muove nell’abitazione senza alcun riguardo per i padroni di casa. Ed è quel rumore pieno e forte col quale i bicchieri cozzano sul tavolo quando vi vengono appoggiati a sintetizzare tutto questo (scena davvero pinteresque). Ilaria Feole, in un ironico status di Facebook, rende mirabilmente la questione: «un grande film sul dramma di avere ospiti quando si ha il parquet». Perché Aronofsky tocca un nervo che appartiene a tutti, quello della preservazione dello spazio domestico e della sua intimità: è impossibile, guardando il film, non desiderare che quelle persone lascino subito la casa. Quello kafkiano-psicologico è il travestimento dell’allegoria, il film avendo una parvenza simile a Il cigno nero (che si muoveva a metà strada tra realtà e allucinazione - ma la psicosi è una costante dell’opera del regista -), sembrando un incubo (senza esserlo) ed essendo passibile di varie interpretazioni: da quella biblica (come si diceva i riferimenti traboccano, dalla Genesi all’Apocalisse), a quella ambientalista (la Madre Natura minacciata dalla sconsiderata umanità, la mancanza di politiche mirate a garantire l’ecosostenibilità); ci si può vedere il ritratto di una paranoia contemporanea, la metafora dell’immigrazione vissuta dall’Occidente come un’invasione. Questa polivalenza è parte del gioco del regista che ha ogni interesse a moltiplicare le piste (e i dubbi) e, di conseguenza, nell’alimentare (lo ha fatto esplicitamente, con pubbliche dichiarazioni), la discussione sul suo film (bastino gli espliciti riferimenti a Rosemary’s Baby in uno dei manifesti ufficiali), discussione che gli consente di far passare un gesto radicale come questo nelle sale di tutto il mondo. Al di là delle interpretazioni che si possono dare al film (dalle logiche dell’impero mentale [2] fino alle filtrate visioni apocalittiche - la negazione delle conseguenze catastrofiche del nostro comportamento globale -) a convincermi è proprio l’abilità dell’autore nel mettere insieme una raggiera di percorsi possibili, nel renderli tutti plausibili e coerenti, districandosi nella trama di possibili riferimenti: Polanski in primis - Repulsion, Rosemary’s Baby -, con un pizzico di isteria zulawskiana, e un po’ di Lars Von Trier (in Antichrist, un dramma psicologico - e allegorico - travestito da horror, Lui e Lei, lo scrivevamo, sono Ragione e Istinto in conflitto). E nel comporre un’opera barocca che non ha paura di disorientare, non delimitando con chiarezza i livelli. Sì perché al cinema (cosa che i cinefili tendono a dimenticare) verità e fantasia hanno pari dignità anche se la loro distinzione non è indicata a chiare lettere nelle premesse: è almeno dagli anni Venti che la logica illogica dell’immaginazione viene filmata (lo dicono anche i libri di testo su cui molti di coloro che gridano vergogna hanno inutilmente studiato). È passato un secolo, sembra ieri ed è deprimente oggi: ancora c’è chi si irrita per questo.
[1] Ma anche Un equilibrio delicato (1967) di Edward Albee, quando i coniugi Harry ed Edna irrompono nella casa della famiglia protagonista col chiaro e assurdo scopo di volerci rimanere, determinando la reazione sempre più isterica della figlia dei padroni di casa (Julia) che vede invaso il suo territorio nell’indifferenza generale (qui la scena tratta dalla versione televisiva integrale del dramma, regia di Tony Richardson, 1973).
[2] Di creazione, possibilità narrative, elementi interscambiabili all’interno della struttura del racconto parla anche Twin Peaks. Che quasi mi verrebbe da dire (lo sto facendo) che se questo mother! fosse una digressione ospitata in un paio di puntate del serial di Lynch tutti starebbero lì a leccarsi i baffi e non si muoverebbe foglia.
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Nell’affanno per dare forma all’allegoria del processo creativo (che è quella preminente, nonostante le dichiarazioni del regista), con musa, desiderio di celebrità e inconvenienti del successo, Darren Aronofsky forza la mano palesandola con troppi “sottotitoli”: è l’unica pecca di un’opera altrimenti straordinaria. Il modello cinematografico è Rosemary’s Baby, per la soggettiva della giovane innocente cui, progressivamente, crolla il mondo addosso, previ dettagli inquietanti, “vicini” sinistri e sette sataniche. Ma Aronofsky va anche in un’altra direzione: è geniale lo stilema della macchina da presa che sta perennemente addosso a Jennifer Lawrence in primo piano perché, leggendola anche nelle espressioni dell’attrice, sa restituire una sensazione inedita al cinema, quella della serenità (raggiunta, agognata o immaginata) intralciata da vari eventi e personaggi importuni. La vicinanza accentua il fastidio e lo porta alle estreme conseguenze in due episodi, quando piccoli e perturbanti inconvenienti con gli “estranei” si trasformano in atti di violenza. Quello finale diventa paradossale, grottesco, perché Aronofsky decide di abbandonare il presunto realismo e far deflagrare, in modo orrifico (via Tenebre), la metafora: i fan della celebrità sono un campo di battaglia con rituali antropofagi. Parossismo meraviglioso, con scene disturbanti (il pestaggio della protagonista ancor più dell’infante rapito), Requiem for a Dream. Allegorie subordinate: il rapporto fra l’essere umano e madre natura (che “dona” la dimora) e vari rimandi biblici citati dal regista stesso (ci sono Dio, Adamo ed Eva, Caino e Abele).