Drammatico, Recensione, Serie

MAD MEN

TRAMA

La Madison Avenue di New York, all’inizio degli anni Sessanta, è piena zeppa di agenzie pubblicitarie nate sulla scorta del boom economico e della nascita della televisione. Una di queste è la Sterling/Cooper, fondata dai due soci più anziani, Roger Sterling e Bertram Cooper. Il direttore creativo è Don Draper, uomo di successo ma dal passato misterioso, riuscito grazie al suo talento ad affermarsi nel mondo della pubblicità. Don è sposato con Betty Draper, ex modella ed ora luccicante trofeo da mostrare ad amici e colleghi, con la quale ha due figli. Lo stress sul lavoro, la vita fatta di sprechi, la gestione delle questioni familiari, portano Don ad abbandonarsi di frequente ai suoi due vizi preferiti: l’alcol e le donne.

RECENSIONI

Contesto Produttivo
Il primo episodio della prima stagione di Mad Men va in onda il 19 luglio del 2007 in prime time sul canale via cavo AMC. Si tratta di un’emittente televisiva basic cable il cui nome è l’acronimo di American Movie Classics. Il canale, infatti, nasce come spazio privilegiato per gli appassionati di cinema nordamericano classico, in particolare pre-anni Cinquanta, in cui è possibile vedere film cult e maratone (si ricordano quelle sui fratelli Marx) senza interruzioni pubblicitarie. Con gli anni Novanta e l’avvento della Seconda Golden Age della serialità americana [1], il canale decide di cambiare natura aprendo agli investimenti pubblicitari e trasmettendo, dal 1996, la sua prima serie televisiva, Remember WENN. La svolta non ha un riscontro immediato, probabilmente per via di una gestione del product placement ancora inesperta, e la serie non riesce ad arrivare al suo naturale termine, ma viene chiusa dopo due stagioni. Nei dieci anni che intercorrono tra la chiusura di Remember WENN e il lancio di Mad Men il canale modifica in modo sostanziale la sua natura cominciando a trasmettere 24/7 e modificando l’offerta (non solo classici, ma anche film degli ultimi trent’anni, oltre ad aprire a serie tv e reality show). In un contesto di maggiore maturità e consapevolezza l’AMC decide di rincorrere i premium cable channel già affermati come HBO e Showtime: è infatti soprattutto grazie all’offerta di queste due emittenti che ha cominciato a delinearsi, in ambienti creativo/produttivi come in quelli accademici, il concetto di quality television [2]. Mad Men non si pone solo l’obiettivo di seguire le orme degli show più raffinati delle due emittenti rivali, ma ambisce ad alzare l’asticella della qualità, a ricalibrare gli standard consolidati dai due canali concorrenti, offrendo un prodotto innovativo e per certi versi estremo. Sin dalla prima puntata la serie creata da Mattew Weiner mostra peculiarità ben definite segnalandosi per fotografia ricercata, scenografie ricostruite in maniera maniacale, regia elegante e dai caratteri spiccatamente cinematografici. Per via di tali marche stilistiche, della trattazione di particolari tematiche (abusi sessuali, omofobia, razzismo, alcolismo) e di un registro cinico e politically incorrect, Mad Men si rivolge consapevolmente ad un pubblico di nicchia, estremamente caratterizzato e definito in range di età (generalmente tra i 20 e i 50) ed estrazione sociale (lo spettatore borghese colto come target ideale). Per questa ragione lo show non cede a facili tentazioni quali ribaltamenti narrativi improvvisi, cliffhanger o ritmi esasperati, ma sceglie una narrazione dall’andamento blando che privilegia l’approfondimento psicologico dei personaggi e dei contesti.

[1]  Per un approfondimento sulla Seconda Golden Age si consiglia Thompson R.J., Television’s Second Golden Age, Syracuse University Press, Syracuse, 1997.

[2] Non è possibile in questa sede aprire il discorso alla quality tv, per questo si rimanda a McCabe J., Akass K., Quality Tv. Contemporary American television  and beyond, Tauris, London-New York, 2007, oppure a Jankovic M., Lions J., Quality Popular Television. Cult Tv, the Industry and Fans, Londra, BFI, 2003.

 

Temi Principali
In molte sedi si è definita Mad Men una “finestra sugli anni Sessanta”. In effetti, in qualsiasi modo si consideri la narrazione messa in piedi da Mattew Weiner, sembra sempre che qualcosa sfugga: lo spettro semantico e stilistico necessita di un allargamento dei margini in modo da risultare il più inclusivo possibile, e nulla sembra essere più onnicomprensivo della Storia: èa questa che parla Mad Men ed è di questa che ci offre uno spaccato di assoluta complessità. Questo approccio alla serie consente di non concentrarsi su specifiche tematiche, ma di osservare dall’alto come argomenti e conflitti trovino ragion d’essere proprio nella loro convivenza, nella coabitazione reciproca all’interno di un universo immaginario in cui macro e micro si intersecano e si alimentano a vicenda. La serie si caratterizza per una narrazione abbondantemente corale in grado di coprire tutte le tipologie di individui che popolano il contesto di riferimento. È però attraverso il protagonista principale, che la narrazione si dipana e che si declinano le cifre fondamentali dello show. Don Draper direttore creativo dell’agenzia Sterling/Cooper, self made man per antonomasia, è portatore di un’identità multiforme e frammentaria in cui si riflettono la dimensione pubblica e quella privata. In pieno boom economico l’automobile non è solo il simbolo di uno status, ma anche il tramite che porta Don nei luoghi che lo definiscono: la città e la suburbia. La metropoli newyorkese è il luogo del lavoro, della modernità, delle trasgressioni e delle tentazioni. Lo spazio in cui il maschio americano può dare sfogo a tutte quelle pulsioni individuali sistematicamente castrate dall’intimità domestica. La campagna, per converso, è il luogo della famiglia, degli affetti, delle certezze, ma anche della noia, di una vita vissuta a metà, di un sogno americano mai compiutamente realizzato, di una serenità soltanto illusoria. Esattamente all’interno di questa dicotomia Mad Men rilancia quella tra uomo e donna, di Don e della moglie Betty Draper. Quest’ultima è;, ad un occhio esterno, la più classica delle donne trofeo, una sorta di riproposizione ricontestualizzata della Grace Kelly hitchcockiana; ma ad una traslazione di sguardo ella appare come il simbolo di una condizione, quella femminile, costretta in uno stereotipo asfissiante, vittima di una repressione culturale e sessuale che ne impedisce l’emancipazione e che riduce il suo personaggio ad un gioco di ruoli alternato tra moglie e madre. Come ideale contraltare di Betty c’è Peggy Olson, non a caso pienamente inserita nella vita metropolitana e che da semplice segretaria  della Sterling/Cooper arriva a diventare uno dei principali copywriter dell’agenzia. Peggy è portatrice di un nuovo modello femminile, che mette da parte l’ideale di una realizzazione familiare in favore di quella personale, di una carriera che la vede in progressiva ascesa. Peggy is the one to watch, il contraltare di Betty, ma soprattutto lo specchio di Don, l’altra faccia (e l'altra forma) del successo, il simbolo di una nuova generazione. Proprio sotto questo sguardo ampio, profondamente sistemico, si comprendono pienamente le dinamiche tra i personaggi, emerge quanto queste parlino dell’America di quegli anni, di uno scontro tra tradizioni culturali, di un cambiamento di costumi di cui Peggy diventa il simbolo. Mad Men è dunque lo spazio dove, attraverso una diegesi complessa e stratificata, si ragiona sulla Storia: è dalla relazione tra le storie e la Storia che germinano i conflitti principali, è dai grandi eventi dell’America di quegli anni (morte di Marylin Monroe, morte di JFK, guerra in Vietnam, movimenti studenteschi) che trovano linfa vitale le svolte narrative dell’universo della serie.

Stile
Mad Men, anche per via del successo ottenuto (la serie ha fatto incetta di Emmy e Golden Globe in ognuna delle sue quattro stagioni), ha dato vita ad una mole di discorsi sostanziosa: una delle conclusioni più ricorrenti è quella, perentoria e impermeabile, che decreta la serie come un contenitore vuoto. La maggior parte delle voci che sostengono questa tesi non nasconde la natura ideologica di tale presa di partito, contro la quale a poco servono contraddittori, laddove ben più interessante è capire la natura e la provenienza di tali convinzioni. Una delle prime notazioni che salta all’occhio è la prepotenza stilistica di Mad Men, la sua esposizione di un formalismo esasperato e maniacale. La tensione alla ricostruzione fedele raggiunge in questo caso vette inusitate in cui la cura dei dettagli, la messa in scena di un mondo particolareggiato in ogni sua marca o gesto (dal vestiario all’arredamento, dalle movenze dei personaggi al gioco sui cliché;), propongono allo spettatore (e allo studioso) un mondo iper-ammobiliato, [1] pregno di oggetti dal valore intensamente simbolico. Mad Men mette in scena una costellazione artificiale, una galassia di oggetti che trovano nella falsificazione la loro ragion d’essere. Se il falso è ciò che vuole a tutti costi apparire vero, l’artificio che annulla se stesso, l’illusione per eccellenza, allora la serie di Weiner è il paradigma di questo processo. Sebbene tutto appaia credibile e vero, nulla lo è davvero e le modalità di messa in scena sono in questo senso emblematiche. Non a caso, tranne rarissime eccezioni, si assiste sempre a scene in interni: la serie è ambientata a New York, ma della Grande Mela non vi è che la traccia del suo simulacro, della sua falsificazione ricostruita alle spalle delle grandi vetrate dell’agenzia. Il modo di rappresentare la città è solo il primo di tanti possibili esempi volti a evidenziare le ricorrenze stilistiche della serie, specie riguardo al ruolo degli oggetti e al rapporto tra questi e la realtà: Mad Men chiude le porte al reale e le apre all’immaginario. Attraverso le simbologie degli oggetti (l’alcol e il fumo come rappresentanti privilegiati dell’abuso e del vizio) Weiner chiama in causa l’immaginario e le conoscenze dello spettatore per riempire un vuoto, un fuori campo, che riguarda tanto la città di New York, quanto il decennio dei Sessanta. New York è là fuori, così come l’omicidio del presidente Kennedy o il Vietnam [2]. Lo stile debordante della serie si propone anche come veicolo di narrazione, vettore di conoscenza storica, intermediario tra autore e spettatore rispetto a un preciso momento del passato. Tuttavia la natura autoreferenziale della serie guarda non solo al suo interno, ma mette in relazione, in secondo grado, il presente con il passato attraverso una retorica consolidata, tipica ad esempio di molti film di guerra, in cui il racconto del passato serve in prima istanza all’analisi del presente. In questo senso, fin dalla sigla, la sagoma di Don Draper che crolla dall’alto di un grattacielo (simbolo architettonico della New York del secondo dopoguerra), non può non essere messa in relazione con l’iconografia, ormai nitidamente impressa nell’immaginario contemporaneo, dei jumpers, le figure umane in caduta libera dalle Twin Towers l’11 settembre 2001. Nella quarta stagione il parallelo si fa ancora più esplicito in quanto gli autori decidono di lavorare attorno al concetto di crisi e piegarlo alle dinamiche narrative messe in atto sino a quel momento. Ciò determina una radicale accelerazione nella definizione di personaggi che, non necessitando più di essere caratterizzati, possono dar spazio al tracollo ampiamente annunciato nelle stagioni precedenti; ma su altri aspetti la crisi investe l’aspetto lavorativo mettendo sul tappeto situazioni molto simili alla crisi economica che investe il mondo capitalistico dal 2008, con tanto di licenziamenti, fallimenti e abusi di potere.

[1] Le nozioni di mondi possibili e mondi ammobiliati derivano da Eco U., I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano, 1990 e prima ancora da Eco U., “L’innovazione seriale”, in Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985.

[2] Federico Guarnaccia, Cose. Il potere degli oggetti in Mad Men, in A. Grasso e M. Scaglioni, Arredo di serie, Vita e Pensiero, Milano, 2009.

Espansione e Brand
Tante delle strategie narrative ed estetiche di Mad Men (a cominciare dai title credits) hanno caratteristiche autoreferenziali, come d'altronde accade per la gran parte dei prodotti della nuova serialità americana. Il lavoro sui cliché è frequente, gli stereotipi e i topos narrativi con i quali gli autori intessono le trame delle proprie opere sono ormai dati per scontati, usati con la consapevolezza che lo spettatore li metabolizzi con un approccio partecipativo e riflessivo. Ciò comporta che gli spazi narrativi dedicati alla riconfigurazione del brand o alle variazioni sul tema del corpus della serie non hanno finalità narrative, bensì comunicative. Vi è un rapporto privilegiato tra autore e spettatore e il testo non manca di rimarcarlo instaurando un gioco di natura discorsiva in cui al centro non c’è il singolo episodio, ma il concept della serie. Va da sé che per una serie sofisticata come Mad Men questi processi prendono una forma estremamente caratterizzata, che evita ogni tipologia meramente promozionale, mettendo in piedi un discorso che dalle maglie della narrazione si fa auto-riflessivo, utilizzando lo show business come legame tra la diegesi e la realtà. Proprio rispetto alla falsificazione la serie opera un discorso su più livelli: se a un primo livello mostra (e dimostra) come far risorgere un intero universo, su un secondo mette in relazione ciò che presenta al pubblico con ciò che al pubblico provoca. I pubblicitari di Mad Men, col tempo veri e propri eroi spettatoriali, lavorano con gli slogan, con la persuasione, con l’auto-promozione, proprio come i creatori della serie che parimenti vendono il loro prodotto cercando la via più seducente. La pubblicità dunque come antesignano della televisione. Se compito dei pubblicitari è di far desiderare al cliente cose, costruendoci intorno un universo su cui proiettare i propri desideri, Mad Men si comporta analogamente con lo spettatore, lasciandolo smanioso di possedere anche solo un bottiglia di whisky, una giacca, un pacchetto di sigarette che vede sullo schermo, con la convinzione di poter entrare nelle vite dei personaggi che ama tramite l’alto valore simbolico dei loro oggetti. Quanto alla disponibilità e al cosiddetto accomodamento, la serie fa in modo di essere accessibile su più piattaforme: oltre che nei passaggi televisivi broadcasting la si può vedere ovviamente su dvd, ma anche attraverso molteplici canali telematici in streaming o downloading come AMCtv.com, Amazon, Surf the Channel, CTV e iTunes. La diffusione dello show non consiste solo nel suo testo, ma anche in tutta una serie di componenti paratestuali che contribuiscono sia alla sua vendita, sia al completamento di un universo intertestuale e multimediale, sempre in prospettiva di una valorizzazione del brand. In questa direzione vanno eventi come la decorazione della linea sotterranea della Grand Central Station di New York con immagini a grandezza naturale di John Hamm, la distribuzione di biglietti da visita della Sterling/Cooper da parte di attori vestiti in stile anni Sessanta, l’organizzazione di feste a tema e l’allestimento di vetrine nello stile della serie. La rete crossmediale dello show si occupa anche di ordinare, promuovere e documentare queste avvenimenti sugli spazi ufficiali dedicati alla serie (blog e forum gestiti dall’AMC), che poi riverberano anche in spazi non ufficiali (blog e social network) creati dai fan. Contemporaneamente vengono lanciati concorsi come You Could Be on Mad Men Video Contest (che chiama i fan alla realizzazione di brevi video sui protagonisti) e Banana Republic Casting Call (che in collaborazione col marchio di moda premia le migliori fotografie di fan vestiti nello stile dei personaggi della serie con indumenti e accessori della famosa firma), i cui vincitori sono premiati con un walk-on role nella serie, entrando così in prima persona nell’universo bramosamente desiderato. Come si può notare dall’overflow mediale e culturale che la serie produce, l’universo messo in piedi dalla produzione non vede nel transmedia storytelling [1] e nella narrazione multipiattaforma la sua caratteristica dominante (caratteristiche peculiari di una serie come Lost), bensì nella costruzione “un brand forte e riconoscibile, che si faccia contemporaneamente emblema di un periodo storico (gli anni Sessanta) e di uno specifico stile estetico, elegante e ricercato” [2]. La tensione verso la costruzione di una galassia il più possibile inclusiva nei confronti dello spettatore (i due concorsi vogliono in fondo dire: più sei legato al prodotto più possibilità ci sono per te di farne parte), che passa anche per un’applicazione come Mad Men Yourself [vedi foto], disponibile sul sito ufficiale, in cui ciascuno può costruirsi il proprio avatar nello stile della serie scegliendo lineamenti, vestiti e accessori per rappresentarsi negli ambienti virtuali.

[1] La notorietà in ambito teorico dei processi di narrazione transmediale è dovuta principalmente al saggio Jenkins H., Cultura convergente, Apogeo, Milano, 2007.

[2] Simone Tosono, “Mad Men";, in Grasso A., Scaglioni M. (a cura di), Televisione Convergente. La tv oltre il piccolo schermo, Link Ricerca, Milano, 2010.

Il favoloso mondo dei pubblicitari anni ‘60
Forse aveva ragione Vincent Canby, critico cinematografico del New York Times per un quarto di secolo, quando nella sua recensione dei Sopranos – la serie tv che ha inaugurato una vera rivoluzione del formato seriale e forse una terza Golden Age della televisione – elencava le tre caratteristiche essenziali di quella nuova razza di serie tv che a lui sembravano dei “megamovies”: la dimensione e il colore dickensiano di personaggi ed eventi; l’esattezza satirica (satiric exactitude) con cui queste opere osservavano il tempo e i luoghi della loro narrazione; e la coesione dell’arco drammatico che le rendeva opere compiute piuttosto che serie indefinitamente aperte. L’intuizione della satiric exactitude, in particolare, coglie qualcosa di vivido che ritroviamo agevolmente in tutti i migliori esempi di “megamovies” drammatici che hanno fatto seguito al successo dei Sopranos, come The Wire, West Wing o, appunto, Mad Men. In queste serie (e in altre apprezzate serie drammatiche come Dexter e The Shield o i più recenti Treme e Boardwalk Empire), c’è un energico e a volte maniacale impegno nel rappresentare con dettaglio e precisione un microcosmo che allo stesso tempo è prossimo e alieno per lo spettatore. Che si tratti della mafia del New Jersey, della politica della Casa Bianca, degli intrighi politico-criminali di Baltimora, dei pubblicitari newyorkesi degli anni ’60, della comunità operaia di un quartiere di New Orleans o della malavita di Atlantic City nell’era del proibizionismo, queste romanzesche narrazioni-fiume s’industriano tutte per realizzare una riproduzione fedele e pignola di mondi paralleli. Mondi estremamente vicini a chi sta sul divano di fronte, perché magari riguardano aspetti nascosti ma rilevanti del più ampio mondo in cui vive lo spettatore (come per mafia, traffici criminali e backstage della politica) o perché rappresentano un pezzo molto specifico della storia del paese (o del paese che ha colonizzato l’immaginario di tutti gli altri paesi). Eppure, allo stesso tempo, si tratta di mondi estremamente curiosi e lontani, perché governati da regole e codici e stili assolutamente originali, lontani dall’esperienza comune e in qualche misura esotici. L’approccio dell’opera a questi strani microcosmi è forse satirico, come diceva Canby – nel senso, crediamo, che si svelano con ironia contraddizioni e vizi. Ma forse, ancor di più, si tratta di un approccio ambivalente, in cui si mescola la fascinazione e la critica (morale, politica o sociale). Questo è soprattutto vero quando il micromondo è retto da regole in palese contrasto con quelle con cui lo spettatore ha a che fare ogni giorno. Il micromondo di Tony Soprano, fatto di vendette, omicidi ed estorsioni, è illegale e immorale – è anzi puramente e semplicemente sovversivo dell’ordine sociale in cui vivono l’uomo e la donna sul divano. Così lo è il mondo del clan Barksdale e di Nucky Thompson, fatto di politici corrotti e assassini senza scrupoli. Le regole che governano questi micromondi hanno però una loro coerenza, una loro razionalità e un loro interesse. E sono queste strane regole che muovono le corde degli eventi e del sentimento. Questo miscuglio di ambiguità raggiunge in Mad Men, inaspettatamente, l’espressione più radicale. L’esotismo del mondo di Don Draper e compari non ha nulla a che fare con la brutalità omicida – e questa sembrerebbe una buona ragione per liquidare la questione. Quel micromondo però è forse ancora più alieno della Baltimora violenta dei projects e ogni cosa, nella scrittura, nella messinscena, nei costumi e nelle scene di Mad Men, è volta a marcare questa alienità. I personaggi di Mad Men, pur appartenendo al mondo ordinario della gente cosiddetta normale (nessuno spacciatore, nessun mafioso, nessun consigliere del Presidente, nessun jazzista di New Orleans), parlano in modo diverso da noi, vestono in modo diverso, mangiano e bevono in modo diverso, si comportano secondo regole diverse. Di sicuro, una prima ragione di alterità sta nel lavoro originale che fanno quelli dell’agenzia Sterling Cooper – la pubblicità invade le nostre vite eppure mantiene per i profani una magia creativa piena di uno strano fascino. Ma, ovviamente, il grosso dell’alienità viene dalla dislocazione temporale della serie. Il favoloso mondo di Don e Betty Draper, di Roger Sterling e di Joan Harris, di Peggy Olson e di Pete Campbell è il favoloso mondo degli anni sessanta, coi suoi strani colori, il suo strano ottimismo, il suo stile esotico ed elaborato, i suoi codici tradizionali e le sue regole antiche che contemplano sessismo, razzismo, indifferenza ai problemi dell’ambiente, quantità esagerate di alcol e di sigarette e mille altre curiose scorrettezze. Quella di Matthew Weiner e degli altri autori della serie è una vera ossessione: acconciature, modelli, brand, utensili, ristoranti che andavano di moda, ricette di cocktail, riviste, abiti, accessori, canzoni, abitudini, passatempi, fenomeni di costume, eccetera eccetera. Un enorme, dettagliatissimo e maniacale modellino di precisione inteso a ripristinare un favoloso mondo che non c’è più. Non è certo invenzione di Weiner che gli oggetti di consumo mostrati in un’opera s’impregnino così tanto di senso: già nei libri, ma ancor di più in teatro, al cinema e nelle arti figurative, le cose fanno parte sostanziale del testo, da sempre. Non è così frequente però che oggetti e segni stilistici siano così pieni di significato da rubare scena e profondità agli uomini, alle donne e ai loro affanni. L’intensità con cui Mad Men si dedica agli oggetti e l’estrema cura e pulizia formale con cui oggetti e personaggi (con pari ruolo) sono composti assieme nell’ologramma dei sixties rivestono una tale importanza da essere una delle più evidenti caratteristiche della serie. È un feticismo dell’oggetto vintage – senza il quale Mad Men sarebbe radicalmente un’altra cosa – accostabile per la centralità del suo ruolo solo a quello che anima le filmografie di Tarantino e, soprattutto, di Wes Anderson.

Nostalgia canaglia
Su questo ologramma alieno e fascinoso il giudizio morale e politico dello spettatore assume sfumature delicate e complesse, che passano dalla condiscendenza alla connivenza. Il meccanismo più elementare è quello, piuttosto basico, in cui lo spettatore occidentale del XXI secolo, educato al salutismo, all’ecologismo, alla parità tra i sessi e all’integrazione razziale (il tutto quantomeno in teoria), si trova a condannare con paternalistica condiscendenza una sfilza di comportamenti del tutto scorretti secondo le regole odierne. Pic-nic che finiscono con cartacce e rifiuti lasciati sui prati. Mogliettine trofeo che hanno come unica occupazione quella di badare alla casa, educare i figli, spettegolare in modo estremamente sorvegliato con le altre mogli e governare le relazioni mondane della famiglia. Neri che fanno soltanto lavori umili. Uomini e donne che fumano pacchetti su pacchetti di sigarette, bevono bourbon subito dopo colazione e non sanno neppure cosa sia una palestra. Sotto questa luce, il micromondo di Mad Men è una sorta di exemplum in cui lo spettatore target della serie (tendenzialmente istruito e di reddito medio-alto) può osservare paradigmi negativi e deprecabili e bearsi della propria superiorità. Un po’ è evoluto – ma ancora alquanto banalotto – è il meccanismo immediatamente più sofisticato, in cui i segni del cambiamento e dell’evoluzione sociale fanno capolino nel tedio conformistico delle vite dei personaggi – per offrirsi all’approvazione dello spettatore progressista. Peggy Olson, segretaria ambiziosa, diventa la prima creativa donna dell’agenzia Sterling Cooper. Betty Draper prende coscienza del proprio ruolo di succube e si ribella al marito. I tempi stanno per cambiare. Da che mondo è mondo, tuttavia, la forza del dramma non abita nessuna di queste trovate didascaliche elementari. Il punto è che il micromondo olografico di Mad Men ha fascino, eleganza e stile: è ipnotico. Nell’inevitabile benevolenza e simpatia dello spettatore s’annida l’ambiguità della sua posizione verso l’armamentario vintage. La nostalgia spande romanticismo e allure su ogni scorrettezza e la tensione tra piacere proibito e ordine sociale raggiunge nello spettatore un interessante livello di complicazione. Con l’ipocrisia della trasgressione che è tipica della società sedicentemente liberata del Duemila, Mad Men mette in scena il proibito e il peccaminoso dei nostri giorni: il politicamente scorretto, l’egoismo franco e innocente, l’adulterio seriale e aproblematico, l’eccesso fisico nei piaceri più insalubri. Tutto vietato, oggi, e tutto possibile con naturale serenità solo nell’ologramma replicante dei favolosi sixties, esotici e alieni, ma incredibilmente cool. L’erotizzazione di queste trasgressioni (trasgressioni sbagliate, contrarie al progresso politico e sociale) fa di Mad Men un dispositivo pruriginoso e schizofrenico. Lo spettatore, che vive al margine di questa tensione tra nostalgia e condanna, tra condiscendenza e connivenza, tra rifiuto e piacere, rassomiglia sempre più ai personaggi della serie, ingabbiati tra verità e finzione, tra forma e sostanza, tra passione e apparenza borghese. La nostalgia peccaminosa è così fascinosa che non soltanto il design della serie (con le varie campagne di Banana Republic e Brook Brothers) ma anche l’ideologia dei suoi personaggi può finire per traboccare nel mondo reale e tramutarsi in moda (una nuova campagna dei 4 Salti in Padella Findus ammicca scopertamente al cliché vintage della mogliettina casalinga anni ’60 che chiede di essere portata al ristorante dal marito). Ma lo spauracchio del cattivo esempio morale è sempre stata un’arma critica spuntata. Già Choderlos de Laclos la irrideva gustosamente nell’“Avvertenza dell’Editore”, apposta all’inizio del suo capolavoro: “Molti dei personaggi che [l’Autore] mette in scena si comportano così male, che è impossibile che abbiano vissuto nel nostro secolo; un secolo filosofico, dove i lumi, diffusi ovunque, hanno reso, come ognuno sa, a tal punto tutti gli uomini onesti e tutte le donne modeste e riservate. Siamo dunque dell’idea che se le vicende riportate in quest’opera hanno un fondo di verità, esse non hanno potuto verificarsi che in altri luoghi e in altri tempi e biasimiamo molto l’autore che, apparentemente sedotto dalla speranza di un interesse maggiore quanto più si avvicinasse al suo secolo e al suo paese, ha osato far apparire sotto le nostre sembianze e con le nostre abitudini, comportamenti che ci sono così estranei” (traduzione B. Nacci). Ecco, abbandonando l’ironia settecentesca e professando invece il serio impegno del progressismo liberale post-sessantottino, Weiner – al contrario di Laclos – ha dislocato i suoi mad men e le sue mad women in un altrove spazio-temporale così peculiare che tutti i loro vizi e le loro debolezze ne risultano asetticamente godibili e deprecabili, desiderabili e criticabili, favolosi e terribili.

Dramma e melodramma
A ben pensarci, la tv è abituata a ritrarre sfilze di bassezze, egoismi, peccati e tradimenti domestici, che si accumulano per poi risolversi per poi nuovamente accumularsi in un gioco di rilanci potenzialmente infinito. L’essenza delle soap operas è, dopotutto, proprio in quell’innesto di temi e struttura narrativa aperta. Mad Men però non concede nulla ai trucchi delle soap: non c’è sentimentalismo – e anzi il tono emotivo è sempre rigidamente sorvegliato e minimizzato in misura a volte radicale; e non ci sono cliffhanger alla fine degli episodi, a tal punto che la curiosità per gli sviluppi degli intrecci è sicuramente tra i più deboli legami tra spettatore e serie. Soprattutto, se i temi (rivalità, aborti, divorzi, tradimenti, passato oscuro, slealtà al lavoro) sono quelli di una soap, struttura e scrittura sono di tutt’altro spessore, intelligenza e coerenza. Resta però una fortissima analogia, che riguarda l’intreccio e il susseguirsi di piccole complicazioni e piccole risoluzioni, senza che emerga mai l’urgenza vera di uno sviluppo chiave, di un appagamento, di uno svelamento o della composizione di un maggiore conflitto. Mad Men procede placido e mite, con estrema lentezza ed estrema misura, senza che mai lo spettatore senta il forte impulso di sapere “come andrà a finire”. Potrebbe, infatti, non finire mai – esattamente come una soap. Non c’è però, come antidoto a questa indeterminata apertura dell’intreccio, la sorpresa episodica o lo sbracamento melodrammatico o l’eccesso posticcio e inverosimile che, nelle soap, suppliscono all’emozione mancata di non avere una tensione narrativa principale. Mad Men, quasi sadicamente, così come infligge allo spettatore il sottile conflitto tra piacere e peccato, impone anche una disciplina sentimentale dal rigore quasi vittoriano. È in questo che Mad Men prosegue il processo di avvicinamento tra il suo spettatore ideale e il suo personaggio tipo. Non c’è una vera identificazione coi personaggi che, alieni socio-culturali, sono exempla in carne e ossa di scorrettezze varie, inassimilabili ai parametri d’oggi. Allo stesso modo, Don, Betty, Pete, Roger, Peggy e Joan non si identificano davvero coi ruoli che l’America di quegli anni impone loro, rigidamente. Le posizioni di spettatori e personaggi sono quindi simili, ma per ragioni opposte. Lo spettatore di oggi, per un cambiamento delle norme sociali, non può condividere nulla del sessismo, del razzismo, dell’egoismo, dell’edonismo di quella gente. Il personaggio di Mad Men invece è costretto proprio dalle norme sociali del suo tempo a impersonare quei ruoli. La schizofrenica simpatia dello spettatore per il personaggio è proibita dalla coscienza più illuminata del ventunesimo secolo. Il dissidio dei personaggi è invece proprio contro i ruoli rigidi del paradigma dell’American Dream. Spettatore e personaggi simpatizzano, complici, corteggiando una ribellione che non sono in grado di compiere. La morale, le tematiche, il progresso sociale qui si fanno da parte: il nocciolo della faccenda diventa passionale. L’identificazione è tutta giocata sulle esplosioni soffocate, sulla tensione superficiale del proibito, sulle increspature lievi della forma. Le stilosità vintage della serie persistono – così come le antiquate norme classiste e sessiste di Madison Avenue. Ma qualcosa emerge contro quella superficie, la tende e la forza; e in piccoli punti la rompe.

Nulla è quel che sembra
In questo sta la forza di Mad Men: l'intelligenza con cui personaggi gloriosamente superficiali, egoisti e insensibili alla maggior parte dei valori correnti si animano di piccole ribellioni contro le identità che si ritrovano appiccicate addosso. La magia del dramma è nella misura con cui questa tensione s'accumula e la sottigliezza con cui esplode, sorda e soffocata, contro la coltre colorata e la messa in piega perfetta delle forme che la ingabbiano e in cui resta alla fine ingabbiata. La metafora di fondo è elementare: Don Draper non è quello che dice di essere e il suo nome e la sua storia personale sono un camuffamento. Tutti gli altri, in generale, nascondono qualcosa e fingono di essere quello che non sono. Che è poi lo stesso artificio che crea la pubblicità: i creativi di Madison Avenue costruiscono ologrammi per vendere prodotti che non sono veramente ciò che la pubblicità rappresenta. Così gli uomini e le donne di Mad Men non sono veramente quello che dicono di essere. Tra i migliori momenti delle quattro stagioni messe in onda da AMC (proprio mentre in questi giorni è cominciata la quinta, in un clima di enorme attesa e incredibile battage pubblicitario) ci sono proprio quelle piccole rotture della finzione, in cui le maschere lasciano intravedere i loro cedimenti. Tra i tanti, ne voglio ricordare appena cinque.

Betty Draper spara ai piccioni del vicino nell’episodio Shoot (Stagione 1, Episodio 8)

Betty, moglie di Don Draper, è l'archetipo della housewife americana dei suburbs. Bionda, bella, educata. Mamma e moglie premurosa e abile custode della casa. Direttrice della poca vita mondana della famiglia. Attende devota il marito che torna da lavoro (o da un incontro con l’amante di turno). Non vede i segni dell’infedeltà coniugale né forse vuole vederli. La sua insoddisfazione scorre, silenziosa ma non innocua, sotto questa pulitissima superficie. Alla fine di quest’episodio, vediamo Betty che prepara la colazione ai bambini mentre Don esce per andare al lavoro. Poi la vediamo lavare i panni, ascoltare i bimbi che giocano e sorridere di questo quadretto ideale: un marito affascinante e laborioso che va in città per guadagnare di che sfamare la famiglia; dei bambini giocosi, gioiosi e ben nutriti; una bella casa da governare e tenere in ordine. Poi Betty esce in giardino e osserva il volo dei piccioni del vicino (il vicino all’inizio dell’episodio aveva minacciato di sparare al cane dei Draper che gli uccideva i picconi). A quel punto, Betty tira fuori un fucile e – ancora in vestaglia, sigaretta all’angolo della bocca – comincia a sparare ai piccioni mentre Bobby Helms canta My special angel: You are my special angel / Right from paradise / I know you're an angel / Heaven is in your eyes.

 

The Carousel nell’episodio The Wheel (Stagione 1, Episodio 13)

Questa scena è già un classico. Don Draper, nel vendere un'idea pubblicitaria alla Kodak per la promozione di un nuovo proiettore per diapositive, fa scorrere vecchie immagini della sua vita familiare, risalenti al tempo in cui il matrimonio tra lui e Betty era ancora un matrimonio felice. Sono minuti toccanti ed emotivamente complessi, in cui Don non solo esprime sottilmente la nostalgia per un passato che non può ritornare, ma la teorizza espressamente, proponendola ai manager della Kodak come la sostanza commerciale del suo progetto pubblicitario. Non sfugge ovviamente, a un terzo livello di analogia, che la nostalgia per un'epoca che ormai è lontana, apparentemente felice ma intimamente artificiosa, è anche la sostanza stessa di Mad Men. Don lo dice espressamente parlando del dispositivo che sta provando a vendere: “this device... is a time machine";

Meditations in an Emergency nell’episodio For those who think young (Stagione 2, Episodio 1)

La seconda stagione (la migliore, a mio avviso) è la stagione della crisi. L'ultimo episodio, il tredicesimo, ha lo stesso titolo di una raccolta di versi di Frank O’Hara, Meditations in an Emergency. In quel finale di stagione, l'universo di Mad Men sembra piegarsi su se stesso, malinconico e sull'orlo di un futuro che minaccia di stravolgerlo. Betty è incinta, ma non vuole un altro figlio da Don; la Sterling Cooper sta per essere acquistata da una grossa agenzia britannica; gli USA sono nel pieno della crisi dei missili di Cuba. Il momento in cui qualcosa si rompe è la scena in cui Betty, sola a un bar, rifiuta dapprima le avances di uno sconosciuto, poi finisce per far sesso con lui. E' la fine certificata del personaggio della mogliettina perfetta. Ma il titolo di quell'episodio chiude anche il cerchio aperto con una scena del primo episodio della stagione. Don vede in un bar un uomo che legge il libro di O'Hara, Meditations in an Emergency: Don chiede di che si tratta e l'altro risponde “I don't think you'd like it", non credo che ti piacerebbe. Frank O'Hara, che è morto a 40 anni nel 1966, è coetaneo di Don Draper e attraversa come lui ogni giorno le strade di New York. Il pubblicitario e il poeta non potrebbero però essere più distanti. E' questo giudizio di superficie che il lettore di O'Hara probabilmente esprime quando si trova a confrontare quell'uomo in giacca e cravatta, legnoso e conformista, con il poeta della New York dell'espressionismo astratto, l'amico di De Koonig e Blhum, le cui poesie erano comparse in un'antologia assieme a quelle di Ginsberg, Orlovsky e Kerouac. Il confronto tra Don Draper e Frank O'Hara è il confronto tra Madison Avenue, coi suoi grattacieli e la frenesia del mondo degli affari, e la New York a sud della Quattordicesima Strada, coi suoi pittori e poeti, il luogo in cui il nuovo sta emergendo. Eppure, Don è attratto da quel libretto e finisce per comprarlo e leggerlo. Forse il borghese modello dell'America industrializzata non riesce a capire del tutto quei versi, ma gli fanno pensare ad Anna e alla California, alla sua identità segreta e non integrabile nella normalità della sua New York. Quei versi scuotono e fratturano il ruolo impersonato a fatica. L'episodio si chiude con la voce di Don che legge gli ultimi versi di una poesia di O'Hara dedicata a Majakovskij: “Now I am quietly waiting for / the catastrophe of my personality / to seem beautiful again, / and interesting, and modern"

C'est Magnifique nell'episodio My old Kentucky home (Stagione 3, Episodio 3)

Joan Harris, prima office manager da Sterling Cooper, poi direttrice operativa di Sterling Cooper Draper Pryce, è l'incarnazione del pre-femminismo: donna bellissima e prosperosa, non evita di usare la propria sessualità come strumento di conquista e mantenimento del suo piccolo potere è che rimane però confinato nel dominio ristretto e secondario dei ruoli “da donna2 (la moglie, l'amante del capo, la segretaria). Nella prima stagione, il conflitto tra Joan e Peggy ruota tutto intorno allo stereotipo segretariale accettato e proposto da Joan: subalternità e sensualità come strategie per ottenere un matrimonio con uno degli “uomini" dell'agenzia (o, quantomeno, una relazione adulterina). Joan è un personaggio ottimamente costruito, una donna intelligente e sensibile che difende con fierezza, nella teoria e nella pratica, la sua ideologia conservatrice. E accetta con la continenza tragica dei conservatori più intelligenti anche le umiliazioni del suo ruolo di trofeo maritale e di ancella. In quest'episodio, il marito Greg invita a cena il suo capo e la moglie. Dopo cena, Greg invita Joan a intrattenere gli ospiti suonando la fisarmonica e cantando una canzone. Joan dapprima è restia, poi accetta. E canta C'est magnifique, mentre la comitiva sorride. Nello sguardo umiliato di Joan a Greg c'è tutta la tempra di uno dei personaggi più amati di Mad Men: l'orgoglio composto e tragico della conservazione.

The Summer Man (Stagione 4, Episodio 8)

In questo episodio Joan teorizza esplicitamente il suo credo. Uno stagista dell’agenzia, Joey, si rivolge più volte a Joan in modo estremamente sessista, con disinvoltura: “Cosa ci fai qui in giro oltre a camminare come se stessi cercando di farti stuprare?” le dice all’inizio dell’episodio. Poi disegna una vignetta che ritrae Joan e Lane Pryce (un socio dell’agenzia) mentre fanno del sesso. La vignetta viene appesa sulla finestra dell’ufficio di Joan, tra l’ilarità degli uomini. Peggy chiede a Don di intervenire, ma Don le dice di sbrigarsela da sola (“You want some respect? Go out there and get it for yourself”). Peggy chiede allora a Joey di scusarsi con Joan e, quando lui rifiuta, lo licenzia. Joan, però non apprezza la mossa di Peggy e in una scena di raggelante lucidità ideologica, dentro l’ascensore a fine giornata, Joan la segretaria spiega alla creativa Peggy (single, indipendente, in carriera) la sua visione del mondo. “No matter how powerful we get around here, they can still just draw a cartoon. So all you've done is prove to them that I'm a meaningless secretary, and you're another humorless bitch”: Non importa quanto diventiamo potenti in questo posto, loro possono ancora disegnare una vignetta. Quindi hai semplicemente dimostrato loro che io sono una segretaria che non conta niente e tu un’altra stronza senza senso dell’umorismo.

1. CONTESTO, TEMI, STILE, BRAND di Attilio Palmieri

2. DENTRO LA SERIE di Roberto Tallarita