TRAMA
Sebastian Caine, scienziato geniale, dopo aver scoperto insieme alla sua equipe la formula dell’invisibilità riesce a scoprire anche quella per ridare visibilità all’invisibile. Dopo varie prove su cavie animali quando i test danno esito positivo decide di sperimentare la formula sull’uomo senza avvertire il Pentagono, finanziatore del progetto. La prima cavia umana sarà proprio lui.
RECENSIONI
Corpi in mutazione costante
Paul Verhoeven, ovvero colui che fu il regista di Robocop, era quasi una scelta obbligata nel momento in cui ci si è trovati di fronte al problema di trovare qualcuno che dirigesse the hollow man, la next big thing hollywoodiana in tema di mutazioni di corpi. Il corpo è il filo conduttore, e a ben vedere, sembra l'unica cosa (davvero l'unica) che interessi a Verhoeven, e le conferme arrivano da chi conosce a fondo la sua carriera cinematografica nella sua interezza (leggere l'illuminante articolo di Pier Maria Brocchi su Cineforum 396). La lamiera è stata in Robocop la corazza di protezione imperforabile che trasudava sentimenti umani e qui l'invisibilità è la negazione di un corpo che soccombe. Il corpo invisibile di Caine è presente più di ogni altra cosa, una presenza assillante, fortissima, esplosiva, carnale, basti vedere la sequenza della scomparsa (visuale) del corpo dello scienziato, la pelle che prima di scomparire oppone una resistenza dolorosissima, strenua come non mai, che cerca di imporsi e soccombe. Verhoven dimostra di essere pienamente a proprio agio nel costruire intorno al corpo umano mutazioni protettive, che lo celino e lo isolino dagli agenti esterni. In Robocop scompariva la mollezza, qui scompare l'impatto visivo e al cinema, a dire il vero, non è impresa facile. Cosa succede quando l'immagine scompare? L'invisibile al cinema e in fotografia (arti del visibile) equivale all'inesistente, ma Verhoeven riesce nell'ardua impresa di ridare una potente fisicità a un corpo che non c'è, la cui fisicità è nascosta, e lo fa attraverso le immagini, proprio quelle immagini che l'invisibilità dovrebbe aver negato. I migliori risultati li ottiene attraverso la fusione del corpo con gli elementi (l'acqua nella piscina, la terra nella solidità incerta della maschera di lattice, l'aria in forma di vapore e infine il fuoco) elementi che lo attaccano e vorrebbero intaccarlo, coprendone ogni millimetro quadrato, aderendogli furiosamente, squarciandone prepotentemente il velo d'invisibilità che lo protegge, smascherandolo in tutta la sua fragile nudità. Una nudità profondissima, feroce, assoluta e selvaggia quella che Verhoeven mette in scena, la nudità come visibilità di ogni meandro del corpo, ogni tessuto, ogni organo, ogni vaso capillare e ogni osso, sostanze molli e corruttibili che scompaiono e ricompaiono faticosamente, rischiando ogni volta di liquefarsi mollemente. Il lavoro intorno al corpo di Caine è insomma esemplare, ma sembra proprio che Verhoeven si sia preoccupato soltanto di questo, cosa peraltro lodevole, dal momento che non si può far altro che inchinarsi di fronte a un uomo che riesce a coniugare con tanta indifferenza la propria ricerca stilistica con le più becere esigenze di mercato. Le parole di Kevin Bacon (colui che interpreta Sebastian Caine) pronunciate sul terrazzo di un ristorante suonano decisamente come una dichiarazione d'intenti pura e semplice: "io amo la grandeur, lo spettacolo, non posso preoccuparmi delle inezie". E infatti come l'intera vita di Caine è stata vissuta in funzione di quelle poche, grandi scoperte scientifiche che ne attestavano la superiorità , così il film vive di quelle "scene madri" che esplodono tutto il talento visionario di Verhoeven. Il resto, ovvero tutto ciò che a Verhoeven non interessa, sembra abbozzato e lasciato al caso (una sceneggiatura incredibilmente prevedibile non aiuta di certo), come la storia d'amore tra la "ex" di Caine e un altro scienziato dal volto così fastidiosamente plasticato e soap-operistico da cadere ben presto nel ridicolo, o il crollo psicologico di Caine verso il Male, o ancora il catastrofismo inutile forse troppo marcatamente parodistico (ma non giurerei che si tratti di parodia) del finale. Le incursioni nel cinema di genere sono molto interessanti (una trovata fantastica quella di Verhoeven- anche se mal riuscita-, quella di passare in rassegna l'impatto che avrebbe la scoperta dell'invisibilità sui vari generi cinematografici, a partire dall'erotismo, passando per l'horror e lo splatter fino ad approdare al thriller) ma prive di spessore.
Non è forse nemmeno il caso di far notare come Verhoeven possa contare su tecnologie ormai avanzatissime in fatto di effetti speciali (anche se l'invisibilità credo sia frutto del caro vecchio Chroma Key debitamente perfezionato, un procedimento elettronico che in tv vediamo ogni giorno, tanto per intenderci), una volta tanto utilissimi e sfruttati in maniera magistrale (credo che i passaggi dei corpi dal visibile al non visibile inchioderebbero alla poltrona qualsiasi spettatore).

Un brutto finale puo' rovinare un film?
Curioso constatare quanto sia influente il finale di un film sulla sua valutazione complessiva. La sensazione e' che gli ultimi fotogrammi siano i primi ad essere oniricamente elaborati per produrre quel mix di istinto e ragionevolezza che si aggira per la mente con il nome di retrogusto. Tutto cio', per capire come mai l'ultima parte del nuovo film, del sempre interessante Verhoeven, sia in grado di svalutare, di colpo, l'intera pellicola. E' come se le tante ovvieta', che si succedono nel modo piu' becero nella parte finale, fossero in grado di smascherare la reale natura di blockbuster di grana grossa, piu' volte scongiurata nel corso della visione, grazie alla predilezione del regista, ormai marchio d'autore, per i lati oscuri della personalita' dell'individuo. Il fatto di essere invisibile, infatti, scatena nel protagonista molteplici opportunita' di risultare impunito nella realizzazione di desideri sopiti o capricci della mente, che la visibilita' avrebbe comodamente messo a tacere. Ed e' interessante questo aspetto, come anche l'incredibile riuscita visiva degli effetti speciali, che abbinano in modo molto naturale e fluido la maschera vuota del protagonista (l'"hollow man" del titolo originale) con il resto del set. Peccato, quindi, che gli aspetti psicologici dei personaggi, ben motivati nella prima parte, sfocino in un horror dei luoghi comuni, debitore di "Alien" e di mille altri film. L'unica consolazione, a tutela dell'autore, e' l'ipotesi di ingerenze produttive per evitare di rendere il film troppo "nero", e quindi poco adatto a una vasta audience, sottovalutando, come ormai solito, l'intelligenza e le aspettative del pubblico.

Quel che resta del corpo
Diciamolo: ci si attendeva qualcosa di piu' da Verhoeven alle prese con un soggetto che coniuga i suoi due "interessi" piu' forti, sesso e fantascienza. Ci si aspettava qualcosa che andasse oltre, volendo essere ben disposti, l'uso dello stereotipo con intenti parodistici gia' visto (ma molto piu' riuscito e beffardo) in Starship Troopers. Tralasciando lo strambo e noioso finale (pur imbellettato in qualche modo dall'ormai inevitabile citazionismo), le solite facce da soap opera dei protagonisti e la svogliata sceneggiatura, rimangono a salvare il film qualche spettacolare e succoso (!) effetto speciale, ma soprattutto l'intuizione che regge l'intera parte centrale (la migliore) del film. L'invisibilita' dello scienziato si trasforma in paranoia di tutti i suoi collaboratori. Questo e' sottolineato magistralmente da Verhoeven con un lavoro complesso di cambi di inquadrature e punti di vista, che spesso passano attraverso la soggettiva del protagonista. Non sappiamo se stiamo guardando la scena con gli occhi invisibili (senza palpebre: ossessione scopica, coazione a vedere) di Bacon o con quelli impersonali e oggettivi del film, non sappiamo dove siamo, dove sia il protagonista, anzi forse ora siamo lui: eccoci a condividere paranoia e sospetto, mentre inseguiamo sullo schermo un personaggio, un attore che non troveremo perche' spesso non c'e', realmente, nell'inquadratura. Altro che effetti speciali, la zampata di Verhoven sta proprio qui: il film e' piu' prezioso, piu' interessante dove e' piu' "semplice", dove addirittura del protagonista si puo' fare a meno, letteralmente. Si fosse pure fatto a meno del finale...

Onniscienza e onnipresenza
Rispetto a Le Avventure di un Uomo Invisibile di John Carpenter, il film di Paul Verhoeven sonda gli aspetti più inquietanti e voyeuristici insiti nella facoltà dell'invisibilità. La sceneggiatura ruota intorno al consueto tema della Scienza superba che perde il controllo della propria creazione, ma il regista crea qualche elemento di novità secondo i propri gusti, dando libero sfogo alle perversioni sessuali del protagonista "senza ombra", un ambizioso e sedicente semidio (onniscienza e onnipresenza sono le possibili prerogative di chi è impercettibile) che perde il controllo delle inibizioni ed esibisce i suoi Basic Instinct. È così che, sfruttando l'idea di base di H. G. Wells, si passa anche da Entity (le mani invisibili che tastano il corpo femminile) ma, purtroppo, si approda alle solite meccaniche alla Alien, andandosi a rinchiudere in un laboratorio, per giocare di tensione, violenza e gatto col topo. Visto che si era già sulla strada, andavano scandagliati altri aspetti sull'essere invisibili, buffi o viziosi, per scioccare e sorprendere un poco di più lo spettatore. Verhoeven continua a privilegiare figure femminili "forti" (Elisabeth Shue, allora, è una simil Sigourney Weaver/Ripley) e trova certamente la propria dimensione ideale in questi fantahorror di serie B che, dall’era Lucas/Spielberg, dispongono di budget di serie A per gli effetti speciali (i tecnici della "Imageworks" regalano vere e proprie lezioni di anatomia, con la ricomposizione raccapricciante dei corpi, dalle vene fino alla muscolatura): ma, al di là del mestiere con cui rende efficace e grandioso il tutto (spettacolare la catastrofica sequenza finale fra le fiamme dell'Inferno e le bizze de L'Ascensore), l'olandese perde l'occasione di ordire un cult maledetto, preferendo rientrare all'ultimo momento in ranghi più accettabili per Hollywood (ma non si nega di mostrare la crudeltà sugli animali e uno stupro). Spassosa la barzelletta sui supereroi.

Il reato del corpo
Vehroeven non nasconde il corpo. Mostrandolo senza pudori e remore ha anche dimostrato come per lui il nudo maschile, non sia un tabu': Rutger Hauer (attore feticcio del periodo olandese) adamitico in FIORE DI CARNE (e non solo), un membro eretto (in tempi difficili) in KITTY TIPPEL, una fellatio senza ombre e mediazioni e (addirittura) una misurazione di cazzi nel fondamentale SPETTERS. Trasferitosi negli USA, ammantati i suoi film di una sgargiante patina hollywoodiana, falsamente concessiva, il regista ha continuato, nel suo grezzo e disincantato cinema di ostentazioni, a lanciare l'oggetto-corpo in faccia al pubblico (da ultimo i fisici perfetti dell'intero cast nelle docce nell'imperdibile STARSHIP TROOPERS). Sorvolando sulla rutilante insulsaggine del prodotto, sulla rozzezza dei dialoghi (ma su questo varrebbe la pena dire qualcosa) e delle situazioni, ci si accorge come, nell'ultimo film, l'uomo senza ombra e' fondamentalmente un uomo senza vestiti, un attore, Kevin Bacon, mostrato (?) nella sua scoperta fisicita', attraverso il quale il regista immette, in un blockbuster da milioni di dollari, il suo inaccettabile chiodo fisso dell'uomo a nudo, facendone la sua invisibile (/invedibile) apoteosi.
