TRAMA
Il detective Harry Hole, tormentato e afflitto da un’acuta dipendenza dall’alcol, indaga su un serial killer che si firma “uomo di neve” il cui operato è distinto da brutali decapitazioni.
RECENSIONI
Il nordic noir è sicuramente uno dei generi narrativi più rilevanti e crossmediali degli ultimi anni. A partire da una folta schiera di autori scandinavi specializzati in racconti polizieschi dal taglio realistico e caratterizzati da personaggi fortemente influenzati dal paesaggio in cui operano, questo modello narrativo di origine letteraria si è esteso al cinema e alla televisione, divenendo oggetto di numerose trasposizioni soprattutto negli Stati Uniti d'America. La serialità televisiva ha attinto a piene mani da questa produzione, tentando in alcuni casi di rivitalizzare le storie originarie attraverso processi di americanizzazione con esiti altalenanti, come dimostra ad esempio il caso di The Bridge. Anche al cinema ormai è abbastanza comune vedere film di genere tratti da opere letterarie scandinave, sia perché questi romanzi hanno conosciuto un successo planetario e trovato nel mercato statunitense un bacino di lettori molto importante a cui attingere, sia perché si tratta di lavori che si sposano perfettamente con alcuni punti fermi del cinema hollywoodiano. Stiamo parlando infatti di narrazioni forti, costruite per guidare lo spettatore in un percorso di scoperta del mondo in cui viene immerso e traghettarlo verso la parte terminale del labirinto narrativo. Inoltre si tratta di storie di genere, capaci di utilizzare perfettamente i codici del noir e pertanto ideali alla trasposizione da parte di un'industria che si regge in buona parte anche su codifiche riconosciute e riconoscibili come quelle date da sistema dei generi. L'uomo di neve nasce come un progetto impostato sull'adattamento del settimo libro che Jo Nesbø ha dedicato alla saga sul detective Harry Hole a partire dalla produzione e dalla regia di Martin Scorsese. Tuttavia in un secondo momento il regista italoamericano decide di farsi da parte (rimanendo però produttore) e viene scelto al suo posto lo svedese Tomas Alfredson. Le qualità di quest'ultimo sembravano ideali per un adattamento del genere, vista la capacità di creare un mondo affascinante e fortemente empatico dimostrata in Lasciami entrare o quella di dar vita a un labirinto narrativo ipnotico attraverso la messa in scena dinamica e la scrittura ad orologeria che caratterizzavano La talpa. Quello della detection sembra un terreno facile in cui muoversi, visti i tanti film e serie TV di genere crime, ma oggi il rischio di farlo apparire un insieme di codici usurati e ripetitivi è dietro l'angolo se non si lavora sull'originalità dello stile, sia dal punto di vista narrativo che estetico. Ciò che ha fatto David Fincher con Zodiac, ad esempio, va esattamente in questa direzione, immaginando una serie di investigazioni a maglie sempre più fitte in cui ogni risposta ottenuta dà vita ad almeno due nuove domande portando la detection a sabotare se stessa. Qui Alfredson fa esattamente il contrario, sedendosi su una materia prima molto affascinante senza però dimostrare in alcun modo di volerla fare propria, finendo per dare vita a un racconto prevedibile e privo di mordente. Non sembra avere nulla da raccontare il regista svedese oltre a un plot preso di peso e traslato in buona parte dalla carta stampata alle immagini in movimento, non sembra esserci alcuna urgenza espressiva da parte di un autore dal quale ci si aspettava, visti i precedenti, esattamente il contrario.
L'uomo di neve è un film diretto da un regista scandinavo, realizzato da una produzione inglese, interamente ambientato in Norvegia ma con attori anglofoni che si esprimono esclusivamente in inglese, come se questa fosse la lingua del posto. A dirla così sembra uno scherzo, considerata l'importanza di un progetto del genere, tuttavia Scorsese nel suo ultimo film ha già dato prova di sottovalutare questo aspetto: Silence è infatti girato con attori angloamericani che interpretano personaggi portoghesi recitando in Giappone in lingua inglese. Chiaramente vendere un film di tre ore sul massacro dei gesuiti non è semplice, però va detto che un'opera che ragiona anche sull'importanza della parola e poi non considera fondamentale la questione linguistica non può non suscitare perplessità. Se il film di Scorsese dell'anno scorso marginalizzava questa questione con una messa in scena di eccezionale complessità e una serie di riflessioni di grande profondità, quello di Alfredson non è capace di effettuare tale bilanciamento, rimanendo così meritatamente esposto alle critiche più spietate. L'uomo di neve risulta fallimentare sul piano narrativo per via di tante sottotrame prima abbozzate e poi destinate a morire nel nulla, ma non funziona certo meglio su quello stilistico (lo stesso Alfredson ha ammesso che la fretta di chiudere il film ha inciso negativamente sul risultato finale) in quanto a mancare sono proprio gli elementi di suspense e imprevedibilità che dovrebbero caratterizzare una storia del genere, specie considerando il minutaggio tutt'altro contenuto dell'opera.