Focus, Noir

L’UOMO CHE NON C’ERA

TRAMA

1949. Ed Crane, barbiere taciturno, è tradito dalla consorte. Per buttarsi in un business (lavanderie a secco) che vede come l’occasione per riscattare la sua grigia esistenza, ricatta anonimamente l’amante della moglie minacciando di rivelarne la relazione. Ma le cose prendono una piega imprevista…

RECENSIONI

Perplesso e malinconico, Billy Bob Torthon è alla ricerca della morte. La ricerca inconsciamente ma neppure tanto visto che con una ingenuità che non può essere un carattere del suo personaggio (che invece, umbratile ed incline alla speculazione filosofica, seppur da barbiere, è riflessivo e guardingo) accetta di essere beffato da un truffatore omosessuale che non fa nulla per nascondere il proprio doppiogiochismo. Va alla ricerca dell’annullamento che anche nell’epoca del principio d’indeterminazione, del caos e del relativismo gnoseologico viene garantito all’essere cosciente del proprio fallimento, per quanto in maniera imprevista, per atti non compiuti, per fatti non denunciati. Finisce sulla sedia elettrica, nella bianca ed asettica stanza della fine.  Mentre la “Patetica” beethoveniana  lo libera dall’orrore facendolo sprofondare nella purezza di un’Arte che non conosce, mentre nel piacere estatico e nella giovinezza candida ma subdolamente viziosa assapora le ultime, o uniche, dolcezze della vita, osserva la gente camminare per strada, ignara di tutto, ignara di se stessa.  Tra  macchie di sangue e capelli recisi, contempla il triste spettacolo della propria fine e della fine del mondo che lo circonda.
I fratelli Coen lavorano all’interno del genere noir e con tutti i suoi stereotipi (voce del morente che si confessa, atmosfera notturna , voglia di riscatto, amore malsano) facendone venire alla luce gli aspetti più negativi, cupi, pessimistici, iniettandovi dosi massicce di modernismo (Heisenberg). Sbaglia chi lo considera un puro esercizio di stile.  Anzi, in questo caso i fratelli ci propinano meno virtuosismi di regia del solito. Sono più controllati, rispettosi dell’immensità del dolore del protagonista (meno, giustamente, della mediocrità degli altri personaggi, tutti osservati con condivisibile disprezzo). Solo negli ultimi minuti riemerge il loro spirito ludico. Ma il più, e il meglio, è ormai già fatto.
Un film grigio come dopo il tramonto del sole e del mondo.

Con i Coen c'è il pericolo concreto di scrivere sempre la stessa recensione: colti, conoscitori del "giocattolo cinema" come pochi, con una padronanza suprema dei suoi complessi congegni, risultano scontatamente bravi nel maneggiare i generi, nel citarli e piegarli ad esigenze altre, ma, dopo L'uomo che non c'era, alla gelida ammirazione subentra, prepotente, l'irritazione. Il loro cinema, fattosi definitivamente e esclusivamente paradigma, mostrando solo la sua struttura, appare oggi di impudica, scolastica nudità. Il cerchio(ne) perfetto della ruota dell'auto che disegna la sua traiettoria nel vuoto, fasci di luce che si stendono in nitide diagonali, performance attoriali calcolate al millimetro, un bianco e nero che dice - come gli ambienti, i dialoghi, la voce fuori campo - di cinema classico, di anni 40, di noir, di una precisa letteratura. Enciclopedica come sempre, la premiata coppia sforna un'opera che suona sempre meno come un'impeccabile prova di abilità, sempre più come fredda operazione di matematica o dimostrazione di geometria elementare: un uomo senza qualità, nelle maglie di una storia che si fa kafkiana, cerca di affermare il suo esistere, il suo essere (personaggio...) apparendo semplice rotella del solito meccanismo coeniano - uno schema che non cambia, cambiando solo l'epoca e il genere (la prossima volta potrebbe essere musical, fantascientifico, bellico o western) -. Il sollazzarsi coi parametri narrativi, la manipolazione dei topoi, le citazioni sparse dappertutto (a cominciare dai nomi), il complesso sistema ad incastri di coincidenze, che agiscono in virtù di un Fato più acuto di un angolo, li abbiamo già visti (Blood simple, Fargo, Barton Fink, Fratello, dove sei), così come le ironiche e stranianti pieghe che assume una scrittura che sa di potersi permettere tutto (dischi volanti compresi). Per la prima volta, però, aleggia l'aria pesante della lezioncina in questo ennesimo film-saggio e anche le consuete svolte narrative divengono di prevedibile imprevedibilità in una sceneggiatura più divagante del solito. La masturbazione postmoderna dei due lascia insoddisfatti insomma, le fantasie che la animano cambiano solo in apparenza e dicono che è tempo per i Coen di sporcarsi le mani non soltanto con i loro umori cristallini, che sono inodori come lo è ogni teoria, ma anche con quelli sporchi e asprigni del mondo; quella del citazionismo, della miscellanea, della destrutturazione è diventata una maschera trasparente che lascia guardare il niente sul quale è poggiata, un niente insopportabile anche se dichiarato, anche se rivendicato come una poetica. Davvero i Coen non vogliono fare altro che questo cinema galera? È una prigione dannatamente perfetta che comincia a farsi soffocante: nel loro film tutto è sotto controllo, qualunque cosa torna, i conti per primi, tutto è circoscritto nel quadrato di questa cella autoriale, poco spazio, e calcolato, per discussioni e interpretazioni, anche quelle date in partenza. Sofisticati, intelligenti? Certo, come negarlo? I loro ammiratori saranno contenti, ma stufo io, se me lo si permette. C'è da sperare che i fratellini anziché giocare con il cinema si decidano, una buona volta, a farlo.