TRAMA
Lucy, 24 anni, studia a Teipei. Il suo ragazzo la obbliga a consegnare una misteriosa valigetta a un gruppo di malavitosi che la rapiscono e le inseriscono nell’addome dei sacchetti contenenti una nuova, potentissima droga sintetica.
RECENSIONI
Besson torna sul luogo dei delitti che l’hanno reso noto al grande pubblico (Nikita) senza rinunciare a meta-rimandi ancora più autoriali (Angel-A) e riproponendo una mega(co)produzione à la Il Quinto Elemento che cerca di coniugare l’anima blockbuster con un certo snobismo europeo. Ci riesce. Lucy è un oggetto sufficientemente trasversale e divergente per soddisfare diversi palati ed esibisce una follia abbastanza genuina da risultare simpatica. I primi venti minuti sono gustosissimi: dopo un prologo preistorico/digitale col noto (eponimo) Australopiteco, si viene catapultati in medias res, con un dialogo serrato quanto curioso, stretto in un campo/controcampo asfittico. L’assurdità e la ferocia degli sviluppi della sequenza vengono impreziosite da rimandi cinefili più o meno immediati e formali: dalla valigetta misteriosa (Aldrich/Tarantino) alla presenza iconica di Min-sik Choi fino a un utilizzo ludico del montaggio in chiave costruttiva, con inserti non diegetici di stampo naturalista che intrattengono con la vicenda affinità tematiche e che rimandano dritto al cinema sovietico, tipo La Madre (1926) di Pudovkin.
Sembra, insomma, un Besson che ha voglia di divertirsi e di divertire. E di spingere il piede sull’acceleratore. Correndo anche dei rischi. Perché, sia detto con tutta franchezza, la piega che prende la vicenda, con la cosa del CPH4 sintetico (aka l’enzima 6-carboxytetrahydropterin) che “sblocca” progressivamente le potenzialità di Lucy fino a renderla una divinità letale, onnipotente e onnisciente, se presa male rischia di indisporre. E di diventare parecchio indigesta. E ridicola. Ma a mente fredda, col senno di poi, il film di Besson risulta avere una sua personalità e una sua coerenza, posizionandosi in un virtuoso limbo in cui la cinefilia, il virtuosismo visivo (ready-)made in Hong-Kong, l’ambizione, l’idiozia e la presa per i fondelli assumono una loro connotazione precisa. Un loro perché. Riuscendo dove lo stesso Besson aveva già tentato e fallito: girare l’Americanata de-Americanizzata, sposare il Botteghino chiedendo contestualmente il divorzio, smontare il giocattolo parahollywoodiano senza romperlo.
La Johansson oscilla tra il crederci oppure anche no, e ricorda un po’ Milla “Alice” Jovovich, Choi fa quello che sa fare meglio, e lo fa bene, mentre Freeman si conferma il miglior-attore-non-versatile in circolazione. Bella la colonna sonora del fido Serra, che alterna partiture da action classico a minimalismi elettronici (I Am Everywhere) e stranezze jazzy (All We Have Done With it). Bello – o organico - anche l’inedito di Damon Albarn, Sister Rust. Brutti, invece, i davvero troppi spot Samsung.