
TRAMA
Christine è costretta sulla sedia a rotelle per buona parte della sua vita. Per scappare dal proprio isolamento intraprende un viaggio a Lourdes, l’iconico luogo di pellegrinaggio tra le montagne dei Pirenei. Si risveglia un mattino apparentemente guarita da un miracolo. Il capogruppo del pellegrinaggio, un attraente quarantenne volontario dell’Ordine di Malta, inizia a interessarsi a lei. Christine cerca di tenersi stretta questa nuova occasione di felicità, mentre la sua guarigione suscita invidia e ammirazione.
RECENSIONI
“Non sono tanti i posti che puoi visitare in sedia a rotelle”. Jessica Hausner inquadra Lourdes con algida precisione formale, in quadri perfetti e stilizzati, statici o mossi da lenti e chirurgici movimenti di macchina, popolati da un’umanità riassunta (in principio) in stereotipi, fatti ingranaggi di un meccanismo sociale sottoposto a ferree regole, dette chiaramente (quelle dell’Ordine di Malta, che dettano il rapporto volontario/pellegrino e quelle della Fede e della Religione) oppure taciute, ma crudelmente, fassbinderianamente, manifeste (la spessa patina dell’accettabilità, la logica dell’apparenza che norma il balletto sociale, le forme subdole del potere). Il rigore estetico, di fronte al proliferare delle contraddizioni della retorica del luogo sacro, permette di non scadere mai nella sbracata denigrazione: il teatro delle situazioni viene sì messo a nudo con distaccato e impietoso sense of humour, fino a giungere alla freddura, ma gli sviluppi narrativi serbano spazio, dopo aver rivelato il meschino scheletro dell’artificio rituale che vampirizza la speranza, alle logiche inconoscibili del mistero. Così la pacata e feroce disanima che mostra la fabbrica dei miracoli nei suoi ipocriti elementi strutturali si sovrappone, inaspettatamente, all’insensatezza dell’evento straordinario che colpisce Christine: allora ci si accorge che la monotonia dello sguardo della Hausner (che dichiara di ispirarsi a Dreyer e Tati) non è semplice snobismo entomologico, ma precisa volontà di riportare tutto ad un’unica, limitata, costante dimensione, una dimensione che non si limiti ad accettare la costruzione utilitaristica realizzata intorno al miracolo e che finalmente di fronte ad esso ne veda anche i riflessi ordinari, le conseguenze nel contesto spietato (e necessario) all’interno del quale il miracolato cambia di ruolo, dissestando l’intorno. Una dimensione raggiunta per sottrazione di ogni certezza, nella messa in crisi continua del giudizio cristallizzato, dei dogmi dello sguardo, nella tabula rasa delle convenzioni che fondano la prassi industriale del miracolo così come la monodimensionalità dei personaggi: Lourdes coltiva il dubbio, smentisce costantemente le attese, si consacra all’incertezza, aprendosi al possibile del reale in attrito con la forma della rappresentazione, meticolosamente geometrica, apparentemente determinista, cromaticamente edonista. La sua è una dimensione umana, che non si lascia abbindolare da posticci, dal già dato, dalla mera derisione (secondo un sovente mal compreso insegnamento bunueliano) o da rivoli di esasperazione patetica: è spogliata dalla sovrastruttura feticistica (e venale) imbastita dalla chiesa così come da ogni pre-giudizio, è ancorata saldamente all’intima, complessa, indigeribile realtà dell’uomo. Si apre all’irrazionale per insinuare il germe della domanda, rifiutando ogni facile risposta (si pensi al fastidio del coro vociante, commento e basso continuo). Lourdes è un radicale gesto di fede nel dubbio, che non nega il mistero, ciò che sta oltre, ma afferma in una dialettica mai paga e con occhio stratificato - insieme lucido e compassionevole, autoironico e chirurgico - quello che sta qua.

Essere, Assenza e Attesa
Lourdes è un film assoluto. Non si tratta qui di esprimere un giudizio di valore sulla qualità dell'opera, peraltro davvero notevole, quanto piuttosto di porre una riflessione sulla forma: è la macchina da presa della Hausner ad essere assoluta, così come quella di Kubrick o di Fritz Lang, nella misura in cui assume come tema diretto l'assoluto - o l'essere, lo Spirito, Dio: i tanti volti del nostro interrogarci sull'origine - che prova a formalizzare nell'immagine filmica. Dico prova perché l'essere non può darsi interamente in ciò che si vede: rispetto a quello costituisce sempre un'eccedenza o, forse meglio, una differenza che si dà nel suo sottrarsi, nel suo esser-assente; la Hausner può parlarcene, allora, solo raccontandoci lo spazio della sua assenza: l'esistere dell'uomo e l'attesa che ne riempie la finitezza. La forma della Hausner è assoluta, dunque, perché organizza il visibile in geometrie elaborate e mobili che inscrivono il movimento delle anime, protagoniste dell'opera, in uno spazio che, dietro il fondamento dell'ordine, è s-fondato, è uno spazio vuoto. Lourdes non è il luogo della rivelazione tangibile di Dio che solleva l'uomo dal peso dell'esistenza, quel peso quanto mai visibile nelle sofferenze degli ammalati, schiacciati sulle sedie a rotelle, quanto, piuttosto, una dimensione purgatoriale tutta protesa verso un oltre che si aspetta disperatamente arrivi da qualsiasi parte, quasi debba sbucare da dietro a un nascondiglio (la roccia della Grotta che le fedeli toccano nella sua matericità alla ricerca dell'Altro della materia, i bagni, perfino la versione gigante della statuetta-souvenir della Madonna). Il mondo di Lourdes è, dunque, il mondo dell’attesa come temporalità che rifiuta sé stessa in vista di un non-tempo che la redima; quel non-tempo che, se accade nell’esistenza, può accadere solo come fatto temporale: è il caso del miracolo «de-miracolizzato» (me lo si passi) – chiave di volta narrativa e ideologica del film gestita dalla Hausner con meravigliosa ambiguità – che non promette la Salvezza Eterna, ma redime l’attimo: è una salvezza tutta temporale (e temporanea) che appartiene al tempo, dandosi ed esaurendosi in esso. È l’accadere dell’essere in absentia.
Attesa è assenza, dunque; e l’esistere dei personaggi, il loro tragico cercare, è sempre vuoto, sempre frustrato: in questo senso vanno letti sia l’uso insistito del fuoricampo che, mediante lo sguardo, attiva uno spazio invisibile che sembra permeare da tutti lati quello visibile senza potere mai essere raggiunto, sia la durata dei piani, tutti piuttosto lunghi, che funzionano come gabbie non solo in senso spaziale, e il riferimento è a quanto detto sopra sulle geometrie, ma anche in senso temporale: non c’è via d’uscita alla «fatticità» dell’esistenza; l’ultima, lunghissima inquadratura, e dolorosa come poche, ci dice l’approdo a questa verità che è la verità del dubbio e della non-verità. Dolorosa. Lourdes, infatti, si muove nel dolore, ma è un dolore dal doppio volto: quello consapevole e tragico della capo-infermiera tormentata dal bisogno di risposte visibili, che si possano toccare, e, insieme, rimessa a Dio nella differenza della sua infinita intangibilità – quanto è vicino questo personaggio alla religiosità drammatica di Bergman; le parole del prete di Sussurri e grida potrebbero essere le sue – e quello grottesco dei tanti personaggi di contorno per i quali l’assenza di Dio non è solo lo sfondo del loro cercare, quanto piuttosto ciò che li abita in quanto cercanti: il vuoto è dentro di loro, prima che nel mondo; sono una schiera di maligni, ipocriti, bisognosi di piccole certezze, che si appoggiano sui dolori dell’altro per restare a galla: mirabile il personaggio della vecchia che spinge la sedia a rotelle della protagonista. Anche il loro avere fede è «mondano», ovvero finito e temporale: capo-infermiera compresa, sono tutti Tommaso, hanno bisogno di mettere la mano nelle ferite, per credere, perché per essenza non possono essere disposti alla fede, se la fede si fonda nel vuoto dell’esistenza a cui cerca di trovare risposta e per questo, ancora, può assumere solo la forma del dubbio.

Il principio dell’incertezza
È stato citato, a proposito di Lourdes, il nome di Buñuel, ma il film di Jessica Hausner presenta più di un’assonanza con un altro cineasta, fortunatamente ancora nostro contemporaneo nel senso più completo del termine: Manoel de Oliveira. E non solo per la presenza nel cast di Sylvie Testud (cfr. Je rentre à la maison), ma perché, al pari del Grande Vecchio portoghese, la Hausner trasforma la parabola in commedia e viceversa. Quello della regista austriaca è uno sguardo lucido e spietato, tanto millimetrico e micidiale che risulterebbe irritante, non fosse per la misura, l’etimologica simpatia e la necessità che lo guidano. I personaggi non sono personaggi, ma fantasmi, brandelli di esistenze che l’insondabile gioco del Caso raduna nello stesso ambiente (l’impeccabile inquadratura iniziale), larve di cui ignoriamo tutto, se non quelli che sono i rapporti di forza (e di debolezza) che legano l’uno all’altro. La regista li osserva, li segue, li pedina come l’anziana compagna di stanza di Christine (figura ambigua, salvifica e inquietante, terribile e perfetto compendio del film) fa con la sua “protetta”, senza dare loro tregua, ma senza forzare o giudicare le loro scelte. Lourdes non cerca di razionalizzare il miracolo (se miracolo c’è) semplicemente perché non si può razionalizzare il mistero insondabile per eccellenza, quello della vita. La protagonista riacquista l’uso delle braccia e delle gambe solo per comprendere che non basta questo (come non basta nient’altro) per essere felici, perché la felicità non è di questo mondo, come non lo è di alcun altro. La caduta (letterale) di Christine è analoga a quella di Cécile, la cui fulminea uscita di scena prova più di mille sermoni l’inutilità delle regole con cui crediamo di risolvere l’algebra dell’esistenza. Un quadro d’assieme disperato, filtrato da un umorismo che, lungi dallo svilirlo, ne rende più acuta la sofferenza, nella consapevolezza dell’eterno ritorno dell’identico: come lo status “miracoloso” di Christine (che, abbigliata di bianco e celeste, ripete “a grande richiesta” davanti alla statua della Vergine la propria personalissima teofania) vacilla sotto lo sguardo muto e sconsolato della bella signora bionda (autentica Mater dolorosa) la cui figlia aveva sperimentato un analogo (analogamente effimero?) miglioramento, così l’attrazione della protagonista per il volontario dell’Ordine di Malta non fa che riflettere il medesimo interesse, analogamente infruttuoso, da parte della giovane infermiera. Ma alla fine, di Lourdes, rimangono soprattutto le immagini, di perfetta, geometrica bellezza e magistrale densità espressiva. Due su tutte: le migliaia di fiaccole nel buio e l’ascesa al Calvario di Christine, vista sullo sfondo, mentre in primo piano si staglia il gruppo statuario della Veronica.

L’austriaca Jessica Hausner, al terzo lungometraggio, compone un’opera straordinaria sul mistero della fede, perché non intacca il mistero e scopre il tono giusto per poter, contemporaneamente, con un distacco che non interviene apertamente, irridere il “mondo” costruito dai “sani” intorno al santuario che fa miracoli e rispettare il tormento (soprattutto, della diversità) dei malati. Il suo sguardo è quello della protagonista, non fanatica religiosa ma, lo stesso, colma di speranza di guarire, ossequiosa dei rituali a vario titolo e allo stesso tempo allibita (ma silente) di fronte a certe manifestazioni di fede. Il vero miracolo è come la regista riesca a filmare in modo documentaristico un mondo a parte, questo “pellegrinaggio organizzato” che potrebbe essere accostato, non fosse per i malati, ad un parco giochi a tema, con divise che contraddistinguono il ruolo degli astanti, negozi di souvenir e, compresi nel “pacchetto”, la foto di gruppo e l’escursione in montagna. Hausner interviene più direttamente quando cesella i vari tipi umani che entrano in contatto con Christine, e il quadro si fa avvilente nell’inconsapevolezza dell’uomo della propria grettezza. Fra Ordet di Dreyer (citato come fonte dalla stessa regista) e l’approccio al sacro di Bresson.
