Drammatico, Recensione

L’ORGOGLIO DEGLI AMBERSON

Titolo OriginaleThe Magnificent Ambersons
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1942
Durata88’/131’
Sceneggiatura
Tratto dadall’omonimo romanzo di Booth Tarkington
Scenografia

TRAMA

Il capitalismo industriale va diffondendosi negli U.S.A.; anche in una cittadina del Midwest (innominata nel romanzo, Welles la rivela come Indianapolis) dove l’aristocrazia del denaro ha al suo vertice gli ammirati e invidiati Amberson, proprietari terrieri. Alla generazione di operosi pionieri succede quella dell’apogeo (i fratelli Jack e Isabel), che ha introiettato il senso di potenza della famiglia e lo vive con magnificente naturalezza; ma il vincolo, psicologico e sociale, del contegno e del prestigio è causa di infelicità autoinflitta: così Isabel sposa l’affidabile ma incolore Wilbur Minafer. Nel rampollo George tutto si guasta, degenera: l’orgoglio è hybris, la sicurezza del proprio carisma sociale è disprezzo della comunità che si affatica per produrre la ricchezza di cui egli gode immeritatamente, il gusto della libertà è infantile capriccio; l’universo lussuoso della domus, abitato da oggetti sovrabbondanti e frivolo compiacimento, esalta un’egoistica bramosia primordiale – la cui selvaggia energia è con fatica occultata da un contegno sussiegoso – sorda alla comprensione degli altri. George Minafer Amberson nega la felicità a se stesso e a chi lo ama (la madre arrendevole, la giovane Lucy Morgan): il deserto morale si proietta in un deserto esistenziale mentre trova compimento il tragitto biografico. L’ontogenesi famigliare ricapitola la filogenesi di classe: la débacle rovinosa, fra isterici melodrammi e rimpianti autocommiseratòri, segue l’esaurimento della funzione sociale ed è parallela all’ascesa della borghesia industriale, quella dell’elettricità e del motore a scoppio (incarnata da Eugene Morgan, padre di Lucy e antico innamorato di Isabel), che soppianta la stremata casta dei vecchi possidenti decaduti con i loro costumi, le ubbie passatiste e le rendite, i castelli e i cavalli, la campagna e la piccola città. Il capitalismo dell’automobile e della metropoli, della società di massa, ammicca sorridente ai contemporanei, schernisce la tradizione, addita le magnifiche sorti e progressive, impicciolisce il mondo contraendo lo spazio e il tempo, illude e stordisce e modella una nuova umanità senza mutare il proprio spirito ironico, la propria paradossale natura: distruggere per creare, creare per distruggere.

RECENSIONI

Dopo essersi trascinati a lungo al margine estremo della pozzanghera opaca dell'anonimato, avevano spiccato quel tuffo verso il fondo che, prima o dopo, è nel destino di tutte le famiglie, principesche o plebee.

(Nathaniel Hawthorne, La casa dei sette abbaini)

Il regista

George Orson Welles (Kenosha, 1915 - Los Angeles, 1985). Lettore vorace; eternamente nomade (e fin nel ventre materno); sperimentatore superbo; teatrante istrionico; tagliente e idiosincratico nell'aperta ammirazione (De Sica, Wajda) come nella sarcastica avversione (Bergman, Antonioni, Rossellini); inventore di forme sedotto dal demone della dissipazione; talento creativo anfibio, che imprime al cinema la dimensione di un'arte totale orchestrando e ibridando materiali eterogenei; fuggito dai produttori, dopo un breve e spericolato innamoramento, per la sua avarizia nel dispensare successi commerciali; avverso allo star system e ai suoi vezzi celebrativi ma capace di esaltare al meglio il lavoro dei colleghi attori; insofferente di costrizioni e convenzioni, dunque realmente temuto e odiato; impietoso, lapidario dissacratore delle ipocrisie e avidità del branco; genio che oggettiva, nelle finzioni e nelle trappole provocatorie, lo spirito del tempo (nella radiofonica Guerra dei Mondi, la prebellica angoscia - di contaminazione e distruzione - d'una società di eletti; nel Processo, l'aggiornamento del labirinto kafkiano alla società di massa e il riconoscimento nella vittima di un'irritabile marionetta complice del sistema che la perseguita); lucido e immaginifico scrutatore della perversione paranoica e dell'apparato spettacolare e manipolatorio del potere (mediatico, politico, economico); implacabile nel seguire a ciglio asciutto il conflitto delle personalità (altro dalle futili contese interpersonali) e la sua evoluzione fino al ridicolo, all'osceno, al patetico; enfant prodige del teatro e del cinema statunitense, potrebbe tenere in pugno gli studios se solo si lasciasse tenere in pugno dai loro 'faraoni senza grandezza, geni senza spirito'; melanconico e magnetico, autoritario e anarchico, conduce all'estremo la propria radicale sfida individualistica, gettando via ogni cosa (come le vantaggiose proposte ricevute dopo i successi dell'Otello al Saint James Theatre di Londra e del Re Lear televisivo con la regia di Peter Brook, scartate per seguire lungo tutta l'Europa le tracce di Mr. Arkadin) a parte la prepotenza della ricerca espressiva, che sa finanziare - da unbankable qual è - e realizzare nei modi più fantasiosi, astuti, imbarazzanti, temerari.


La sceneggiatura
Dopo le polemiche, le minacce, le grane legali, le difficoltà nella distribuzione di Citizen Kane causate da Hearst, tirannico oligopolista dell'editoria riconosciutosi nel protagonista del film, Welles - che ancora gode di fiducia (condizionata) presso la RKO e di autonomia creativa (sub iudice) - conta di aggirare gli ostacoli vestendo da romanzo storico e d'amore (il recente successo di Gone with the Wind è augurale) la sua imperdonabile biografia americana: ne sortirà un'aggressione satirica forse meno flagrante, non meno acuta.

Propone dunque di portare sullo schermo l'amato libro di Tarkington, di cui ha già operato un'eccellente riduzione radiofonica di 50 minuti (andata in onda sui canali della CBS il 29 ottobre 1939); da essa muove, nell'estate del 1941, per stendere la sceneggiatura, ove reintroduce il personaggio di 'Aunt Fanny' elevandola ad autentica deuteragonista/antagonista.

L'intrigo dei giovani innamorati, che occupa una parte cospicua del romanzo, ne costituisce anche la trama più scontata. Il regista si serve dei meccanici topoi del melodramma sentimentale asciugandoli (elimina il personaggio del rivale di George) e contraendoli in pochi momenti significativi; in ciascuno di essi balza in rilievo soprattutto la lontananza di due visioni del mondo, rese inconciliabili dalla rigida fedeltà al proprio ruolo che George si impone.

All’affresco sociale tratteggiato da Tarkington in una lingua agile e controllata, la sceneggiatura attinge con fedeltà spesso testuale ma ironica: alla dichiarata nostalgia del narratore esterno (con la voce del regista) per un mondo perduto e immoto in cui v’era “tempo per ogni cosa” (“they had time for everything: time to think, to talk, time to read, time to wait for a lady!”), si accompagna la descrizione visiva di quel mondo sospinto a continui cambiamenti nelle abitudini, nelle mode, nelle relazioni sociali. Nel contempo viene estesa e rafforzata la presenza del coro dei concittadini, sicché i good citizens a cui già Tarkington aveva riservato canzonatorie stoccate diventano un vero e proprio narratore popolare intradiegetico – livoroso e cinico anche nel compatimento – che intensifica la polifonia ideologica, tipica del romanzo realista, cui Welles si mantiene fedele. Rifiuta infatti l’insipiente sottigliezza degli psicologismi che accorciano lo sguardo e impoveriscono il racconto: potrebbe far sua la massima di Maupassant “chi pratica della psicologia pura non può che sostituire se stesso a tutti i personaggi”. Anche il coro cittadino soggiace tuttavia alla legge del rovesciamento e dell’insensatezza che tocca i destini individuali, come osserva con distacco e pietà il narratore esterno: “the people who had so longed for it were not there to see it, and they never knew it. Those who were still living had forgotten all about it and all about him”.

Con infallibile intuito, Welles esalta i segmenti narrativi che meglio individuano le linee di tensione fra i personaggi e la loro irresolubilità, affidandosi a una messa in scena atta a denunciarne il radicamento in rapporti famigliari patologici e in sovrumane dinamiche economiche; se l’appariscente profilo edipico della vicenda è un espediente utile ad allettare lo spettatore (nonché una pletora di esegeti), interessa meno ed è meno inquietante della velenosa fucina di repressione-frustrazione-nevrosi custodita dalla signorile dimora. Ciò che nel romanzo era timidamente alluso, in sceneggiatura e sullo schermo diventa un’angosciosa, labirintica rete di interdetti e imperativi, penosi rimpianti e desideri impossibili, che bloccano i protagonisti in un destino di coazioni a ripetere ogni volta più dolorose o disperate: le apparizioni – in calesse, a piedi, in carrozza – di George in città, i corteggiamenti di Eugene, i dinieghi di Isabel, le cacciate di Eugene dalla casa, le trame di Fanny. Il personaggio di George perde la turpe e aristocratica grandezza che lo distingueva nel romanzo; neppure l’umiliazione cui lo costringe la disgrazia lo eleva al rango d’eroe ritrovato. Significativamente, Welles espunge la scena finale di pacificazione che nel libro suona commossa catarsi, protetta dallo sguardo della perduta Isabel; in sceneggiatura, l’episodio è inserito con effetto di antifrasi in una conversazione fra Eugene – pragmatico e magnanimo trionfatore dei tempi nuovi – e Fanny, nel modesto ricovero in cui ella vive tra il rancore e la follia. La più indicativa delle discontinuità col romanzo pronostica, fra la concezione di Welles e le necessità dei pifferai magici di Hollywood, un nuovo urto frontale; con esso, il destino della pellicola.

Gli attori
La compagnia è d’alto livello, composta per lo più da attori di solida esperienza teatrale e radiofonica, già amici e sodali di Welles nel Mercury Theatre e nell’avventura di Citizen Kane: Joseph Cotten, Ray Collins, Erskine Sanford. Si uniscono Dolores Costello (la “dèa del cinema muto”, dispensata dalla ricerca di qualsivoglia modernismo nella recitazione; ma Welles aveva a lungo coltivato il sogno di riportare davanti alla macchina da presa, per il ruolo di Isabel, Mary Pickford) e la giovane Anne Baxter, il cui pudore espressivo sottolinea la rigida compostezza del personaggio. Nella riduzione radiofonica, George era stato interpretato dallo stesso regista, che gli aveva conferito – lui dalla voce così caratteristicamente profonda – i toni acuti e striduli d’un bambino testardo e viziato. Tim Holt – un breve passato e un lungo futuro da attore di secondo piano (con la luminosa eccezione del Tesoro della Sierra Madre) – non ci costringe a rimpiangerlo, ed è molto.

Richard Bennett è meraviglioso nel ruolo del maggiore Amberson: percepisce il declino della famiglia e sente di non potervisi opporre, vinto da forze più grandi del carattere, né potrà affidarsi alla terra se non dopo la prova più terribile cui un uomo possa essere chiamato. Il regista (che lo vorrà ancora con sé in Terrore sul Mar Nero) gli regala un dolente monologo in primo piano e fa del suo volto smarrito il punto d’avvio di una breve, saettante sequenza che costituisce la vetta drammatica del film.

 

Per quanti elogi meritino gli altri attori, questo è indubbiamente IL film di Agnes Moorehead (Clinton, 1900 – Rochester, 1974). Precocemente appassionatasi alla recitazione, è spinta dal padre – severo pastore presbiteriano che pure non la scoraggia nell’amore per il teatro – a un’eclettica formazione intellettuale; la tenace volontà di affermarsi sulle scene le consente di sopportare una gavetta avara di soddisfazioni. Ormai trentenne, è impegnata in trasmissioni radiofoniche che le danno l’occasione di raffinare sino al virtuosismo la padronanza dello strumento vocale, col quale solo modella una cospicua varietà di caratteri e personaggi.

Quando la conosce, nel ’37, Welles vede in lei una compagna di lavoro ideale per versatile intelligenza interpretativa; col Mercury partecipa a numerose delle riduzioni radiofoniche proposte fra il luglio del 1938 e il marzo del 1940, dando vita alle mutazioni anagrafiche e sentimentali di Mercedes ne “Il Conte di Monte Cristo”, alla secchezza petulante e invidiosa di Mrs. Van Hopper in “Rebecca”, all’intelligenza chiusa e sofferta di Miss Crawley ne “La Fiera delle Vanità”; attraverso una perspicace lettura antipuritana del romanzo di Stoker, conferisce alla Mina Murray di “Dracula” timbri di languida sensualità repressa, progressivamente rivelantesi fino al gemito orgasmico che le sfugge nell’abbraccio fatale col vampiro.

Con simili premesse d'eccezione, partecipa a Citizen Kane nel ruolo brevissimo (una scena di 4 minuti in un film che ne dura 116) della madre del protagonista, offrendone un'interpretazione memorabile. La spiccata presenza scenica, l'asciutta sensibilità espressiva e l'onnipotenza d'una voce dagli infinti colori vengono esaltate, l'anno successivo, nella Fanny degli Amberson, che costituisce il suo capolavoro d'artista. Per apprezzarla appieno, non è sufficiente ammirarne la mimica di prodigiosa intuizione: bisogna ascoltare il film in lingua originale. Anna Miserocchi, che le ha prestato la voce nel ridoppiaggio italiano, è stata attrice di grande e ammirato talento e ha compiuto miracoli (rovesciando la connotazione caricaturale impressale da Wanda Tettoni nel doppiaggio del 1946), ma il miracolo continuo della voce di Moorehead è inavvicinabile: domina ogni scena, ogni inquadratura, anche quando se ne sta in secondo piano, con la sua capacità di rendere fin nelle minime oscillazioni o negli improvvisi abissi la frustrazione sessuale, l'illusione amorosa, l'invidia di classe, l'insinuante maldicenza, la recita vittimistica, l'affetto sincero, la gelosa possessività, la finta indifferenza, il panico della follia. In seguito, sarà presenza costante ancora alla radio e poi in televisione, in parti da caratterista: lo stesso cinema, a partire dagli anni cinquanta, ha confinato l'ormai matura interprete in ruoli di contorno, spesso schematici o addirittura imbarazzanti, ai quali darà l'acqua della vita. Fra i tanti, il bel personaggio dell'ispida e fedele governante di Bette Davis nell'ottimo Piano... piano, dolce Carlotta (Robert Aldrich, 1964). L'accompagneranno sempre, sino alla fulminea malattia senza scampo, una granitica fede religiosa e lu'morismo con cui già aveva saputo trattare le critiche per le dichiarate idee conservatrici, le dicerie - mai smentite né confermate - relative alla sua sessualità, la discutibile qualità di alcuni prodotti televisivi (compreso il troppo noto 'Vita da strega') a cui aveva preso parte.

Gli altri
Loro distrussero gli Amberson, e quel film distrus­se me.
(Orson Welles, intervista a Leslie Megahey, 1982)

Il rapporto di Welles con la RKO non è idilliaco; gli vengono rifiutati numerosi progetti (alcuni ancor prima di Citizen Kane), dove costantemente ricorrono temi scomodi se non esplosivi all'epoca: la manipolazione degli individui, la demagogia, l'alterazione della realtà, la creazione di pericolosi miti collettivi, l'ambigua commistione - anzi la vera e propria confusione - tra princìpi democratici, pratiche di dominio ed esiti autoritari.

La major è attraversata da spinte contrarie, a seconda della cordata di azionisti di volta in volta prevalente, che determinano brusche sostituzioni nella guida operativa della società. Alla fine degli anni '30 diventa direttore di produzione George Schaefer: intelligente nell'individuazione dei talenti, ambizioso ma velleitario, poco abile nei movimenti tattici fra artisti e mecenati. A lui si deve l'ingresso di Welles nella scuderia RKO, ma la vis polemica di Citizen Kane - contro gli ingannevoli riti della politica liberale, le insidie della comunicazione mediatica e la violenza del Capitale -, le traversie che Hearst ha procurato alla pellicola e alla corporation, lo scarso successo commerciale del film non solo fanno di Welles un sorvegliato speciale, ma rendono scomoda la poltrona su cui siede Schaefer. Il produttore si illude di aver condotto il regista a più miti consigli, e apprezza la proposta del testo di Tarkington che gli pare innocuo o quasi. Le riprese cominciano il 28 ottobre 1941 e si concludono il 22 gennaio 1942; in mezzo, l'entrata in guerra degli U.S.A. dopo l'attacco giapponese a Pearl Harbor. Nella drammatica emergenza storica, il regista non dimentica le priorità nella fissazione degli obiettivi polemici e si impegna senza tregua nella propaganda contro l'Asse patrocinata dal governo di Roosevelt. Alla fine di gennaio, non appena terminate le riprese degli Amberson, si reca in Brasile per completare un documentario a episodi commissionatogli da Nelson Rockfeller, tra i principali azionisti della RKO. L'obiettivo immediato è di mostrare, con l'opera di un regista di grido, l'interesse e il rispetto degli yankee per la cultura e il folklore sudamericani e di superare così la storica avversione dei cugini latini; lo scopo finale è l'alleanza politico-militare panamericana.

Prima di partire per Rio, Welles il 4 febbraio incontra a Miami l'editor Robert Wise e il manager del Mercury Jack Moss - da cui spera un fedele controllo sull'attuazione delle proprie direttive - per gli accordi sul montaggio; comunicazioni e istruzioni viaggeranno in seguito per telefono o cablogramma. L'editing procede lentamente, com'è naturale date le condizioni; Schaefer, sempre più traballante sul suo seggiolone e desideroso di segnare un punto a proprio favore con l'uscita del film nei giorni di Pasqua, visiona il materiale e ne rimane sconcertato. Gli uccelli del malaugurio della RKO, fra i quali si distingue lo sprezzante Charles Koerner, predicono l'insuccesso; la parola too risuona minacciosa nelle note dei dirigenti, nei resoconti rassegnati di Wise, nelle risposte concitate di Welles. Tutto è 'troppo' nel film: la lentezza, il pessimismo, il vero, la cupezza, i personaggi negativi, la critica sociale, la durata; e donde tanta austera continenza formale, dopo l'esuberante scintillio di Citizen Kane? Vengono fissate due anteprime, il 17 marzo a Pomona e il 19 a Pasadena; i pareri del pubblico divergono, ma Schaefer si aggrappa a quelli negativi ("A horrible distorted dream", "The worst picture I ever saw', 'I could not understand it") per scaricare Welles tentando di salvare se stesso. Sa che una modifica del contratto intervenuta l'autunno precedente - la RKO già correva ai ripari - ha privato il regista del diritto al final cut; ordina a Wise di rimontare il film e di girare, con Moss e l'assistente alla regia Freddie Fleck, scene sostitutive e di raccordo, mentre scrive a Welles (21 marzo) una lettera di vittimistica contrizione e pretestuosi rimbrotti contabili. Il regista corrisponde fittamente con Wise provando a salvare il film con minuziose proposte di revisione; per regalare ai capi l'ottimismo e l'happy end che essi pretendono, suggerisce perfino un assurdo finale in cui George e Lucy viaggiano felici a bordo di un'auto, purché venga inserito nei credit conclusivi. Tentativi inutili. Il diritto di proprietà prevale sulla libertà creativa: il Capitale si è pronunciato, irrevocabilmente, e tutto va subordinato ai suoi disegni (la cui meschina aridità distruttrice verrà sardonicamente omaggiata da Welles, venticinque anni più tardi, in The Immortal Story); il film viene amputato di 40 minuti, manipolato e reimpastato; il 26 giugno Koerner sostituisce Schaefer annunciando una politica di "entertainment, not genius' e disponendo, come in una damnatio memoriae, che i negativi degli Amberson esclusi dalla versione finale vengano distrutti. Presentato nei lanci pubblicitari come una storia d'amore, il film esce il 13 agosto 1942 senza alcun successo. Il destino dell'opera anticipa quello dell'autore: l'immagine dell'enfant prodige si è mutata in quella nel regista maledetto, che ha perso il controllo delle sue opere e fatica a trovare ingaggi; Welles tornerà a dirigere solo nel 1946 (Lo Straniero), e solo dopo essersi impegnato a pagare di tasca propria eventuali sforamenti di budget.


Il film
Come si è osservato, Welles aveva sottratto ogni romanticismo e grandezza ai personaggi di Tarkington. La maggior parte degli interventi manipolatòri della produzione è vòlta a elidere o almeno attenuare questa durezza nei confronti dei protagonisti; a tal fine, sono girate di nuovo quattro scene. Nel confronto tra George e Isabel sulla lettera di Eugene, viene ammorbidita la bellicosa, ricattatoria prepotenza del figlio; nella sequenza girata da Wise, con un liricheggiante accompagnamento dei violini di Roy Webb a sostituire quello di Bernard Herrmann, il giovane non impone il proprio volere con sadica determinazione (viene tra l’altro cancellata la battuta con cui furiosamente minaccia una catastrofe se Eugene oserà mettere ancora piede in casa Amberson), ma è confuso e incerto di fronte alla rivelazione del sentimento che da sempre lega la madre all’inventore; il rifiuto della proposta nuziale sembra sorto spontaneo dalla troppo materna Isabel anziché strappatole dal cieco egoismo di George. Per l’ultimo tentativo di Eugene di vedere Isabel, Welles aveva costruito una feroce catena della volontà che vedeva George come primum movens: il rampollo istruiva gelidamente Fanny; ella come un automa comunicava l’interdetto a Eugene, che annichilito usciva dalla casa. Nella scena realizzata da Fleck, la rinuncia di Eugene è suggerita quasi con affetto da Fanny e da Jack (il quale nel girato originario non compariva) in un’atmosfera d’intenso pathos del tutto estranea alla disumana freddezza ricercata da Welles.

Viene in parte rifilmata da Moss la scena in cui Fanny cade contro la caldaia, per attenuare la sua isterica insistenza a trasferirsi in una costosa pensione (e dio solo sa cos’era la sequenza originaria, se quella che vediamo già spaventa nel mostrarci l’abisso di follia nel quale la donna sta sprofondando).La sequenza finale durava otto minuti. Dopo aver appreso dell’incidente occorso a George, Eugene si reca in ospedale; del loro incontro veniamo a conoscenza nella conversazione con Fanny, a cui l’uomo fa visita nella modesta casa di riposo ove ella vive. Eugene le parla dello stato di salute del giovane, cerca di discutere dell’eventualità che George e Lucy si sposino, le rivela di aver avvertito l’amorevole presenza di Isabel nella stanza in cui il ragazzo è ricoverato, dichiara che la propria fedeltà all’amata si tradurrà nella protezione che saprà offrire al figlio di lei. Tutto questo fra il cigolio di una sedia a dondolo, le voci degli altri pensionanti sullo sfondo, il gracidare nel grammofono di una canzonetta, e senza che Morgan riesca a vincere l’alienato distacco di Fanny, disperato controcanto alla visione positiva di cui egli è portatore. Nell’ultima scena, Eugene in silenzio guida nella notte. Dissolvenza al nero. “Un tragico, raggelante decrescendo; non credo che esistesse nulla di simile nel cinema americano” (Rosenbaum).

La versione girata da Fleck dura poco meno di tre minuti, e una volta di più rimuove la radicalità di Welles intridendola di commozione, lacrime e volti radiosamente sorridenti, con i soliti violini ispirati di Webb a suggerire salvezza morale e lieto fine amoroso; una visione consolatoria che suona come una bestemmia all’indirizzo dell’opera del regista.Oltre alle sequenze girate una seconda volta, bisogna ricordare quelle del tutto cancellate dalla versione finale.

Innanzitutto, l’elezione di George a capo di una confraternita giovanile, ottenuta facendo valere il prestigio del proprio nome: è rimasto il bambino viziato che importunava i concittadini, singolarmente abbigliato come un Luigi XIV, con la sua scostumata arroganza. Poi, la visita di George al cantiere in cui stanno sorgendo delle abitazioni da affittare: un tentativo di rimanere nel giro dei potenti mentre il declino è già cominciato e si avverte nei silenzi e nelle occhiate di Wilbur, del maggiore e di Jack; un tentativo che l’impreveduto sviluppo industriale e urbano della città trasformerà in una delle cause del tracollo definitivo. Infine, alcune scene che illustravano la progressiva decadenza economica della famiglia – pressoché incomprensibile nella versione definitiva – e la graduale trasformazione urbana, riassunta dal narratore nel suo effetto complessivo. La città, forma privilegiata del sociale e sistema-mondo, cambia i suoi connotati in funzione di dinamiche oggettive; individuabili se osservate a distanza, si impongono quasi occultamente a chi vi è immerso e si illude di guidarle da protagonista: il quartiere ritenuto dagli Amberson tanto prospero da intraprendervi un processo di riproduzione e accumulo della ricchezza era destinato alla marginalizzazione e all’impoverimento, mentre la trascurata periferia si avviava a uno sviluppo tumultuoso.

Poetica e forma vengono squilibrate dagli interventi di riscrittura; il sopravvissuto tronco dell’opera, tuttavia, sorregge vitale le protesi palesandone – eterogenesi dei fini! – l’estranea convenzionalità; si pensi ai close-up che con banale interiezione rompono la continuità del piano-sequenza, afflosciando la tensione anziché esaltarla. Welles ha convogliato infatti ogni elemento della messa in scena nella costruzione drammatica: non solo il concatenarsi di fatti e parole, ma i gesti, i movimenti, i suoni e i rumori (la manovella e il motore dell’auto contrapposti all’ovattato galoppo del cavallo e al tinnulo accompagnamento musicale che simula il sonaglio di una slitta), gli oggetti, le ombre,  gli ambienti, persino il fuoricampo sonoro (le grida di Fanny e di Jack dall’interno delle loro stanze, le voci allarmate di Isabel e Fanny dopo l’incidente sulla neve) e visivo (la persona, ancora oltre i confini dell’inquadratura, osservata da Eugene mentre egli confida che c’è una sola ragione per cui si perdona la gaffe commessa tanti anni prima con Isabel). L’effetto è dato dalla sommatoria, nel loro millimetrico incastro, di queste linee di forza e dalla loro variazione, il cui crescendo è alimentato dalla continuità della sequenza. Ad esso è indispensabile la profondità di campo garantita dalle focali corte della mdp di Stanley Cortez: la lezione maiuscola di Gregg Toland (direttore della fotografia di Citizen Kane) viene messa a frutto dal giovane e promettente operatore in un ricco gioco di sfumature e allusioni. Siffatta drammaturgia ‘totale’ è il corrispettivo della poetica di Welles: se il cinema è l’arte che rappresenta la realtà attraverso la realtà, ogni frammento di questa deve trovarvi posto. Peccherebbe di astrattezza chi volesse raccontare il reale isolando cose e individui dall’ambiente nel quale sono fusi, “espellendole dalla vita” (Silvestri); percezione e conoscenza sono fenomeni globali, scaturiscono da una costellazione di dati in mutua relazione (di cui la dialettica figura/sfondo è solo il più classico degli esempi). L’unità drammatica del piano-sequenza + pan-focus + pan-sound è lo strumento più appropriato, sebbene di arduo dominio, per tale poetica: la messa in scena, abbracciando integralmente il reale, ne restituisce potenzialità e ambiguità, mentre il close-up e il campo/controcampo lo disseccherebbero in una didascalica finitezza e inoculerebbero nello sguardo spettatore la tranquillante identificazione/proiezione nel personaggio. Il realismo, coraggiosamente inteso, rifiuta l’esperimento – spezzettare il visibile, analizzarlo, ordinarlo – in favore dell’esperienza, sintetica e totalizzante: il singolo non è che una vibrazione dell’intero. Così, la mirabile sequenza della festa da ballo è un saggio di virtuosismo tecnico al servizio di una narrazione calibrata al millesimo per immergere lo spettatore nella superba elegnza della villa degli Amberson e allo stesso tempo nel flusso di relazioni e conflitti che attraggono e dividono i protagonisti: scivolando da stanza a stanza, da personaggio a personaggio, cogliendone una traccia di conversazione o uno scambio di sguardi mentre entrano o escono dall’inquadratura, la mdp svela gradatamente le possibilità e le implicazioni di una storia tutta da scrivere, senza che a nessuna di esse venga riservata troppa attenzione.

Addensando sullo schermo il materiale narrativo e drammatico e il suo complessivo dipanarsi (o aggrovigliarsi), Welles fa dell’inquadratura il luogo di accumulo dei conflitti; non solo fra i personaggi ma fra bisogni e costrizioni, carattere e destino. Grandiosa concezione, che eleva il cinema alla complessità dell’arte romanzesca; sfida erculea per un’arte ancora bambina; trionfo dell’autore che – al pari di Flaubert o Čekhov – sa ricreare “quella coesistenza di banale e drammatico che è alla base delle nostre vite” (Kundera). Tre scene paradigmatiche: la conversazione fra George che si rimpinza di dolci e Fanny che con simulata noncuranza indaga su Eugene, fino alla crisi di gelosia innescata dalle battute scherzose del nipote e di Jack, sopraggiunto nel frattempo; la visita alla fabbrica di automobili, con le schermaglie amorose fra Eugene e Isabel a rendere per contrasto bruciante, nell’allegro vocìo degli astanti, la solitudine di Fanny; l’ultimo incontro fra George e Lucy, ove la tensione si accumula per la rigidità tutta scatti di lui e quella tutta sorrisi di lei. Il crollo emotivo di Lucy avrebbe dovuto costituire l’Höhepunkt di quest’ultima scena, ma il montaggio imposto dalla produzione ha infranto la perfezione strutturale del long take col primo piano della ragazza il cui sorriso si è mutato quasi in una smorfia; il successivo svenimento è solo umoristico, avendo ormai perduto la sua funzione di vertice drammatico. Per una strutturazione del profilmico che consenta di valorizzarne gli elementi di volta in volta più opportuni, gioca una funzione primaria la resa plastica dello spazio, di cui chiaroscuro e scenografia sono strumenti essenziali.

L’enfasi del gioco di ombre e luci dà rilievo diegetico al tarlo di un sospetto, a un sentimento inconfessato, a un tormento represso; pareti riprese dal basso incombono sui personaggi, vani di ampiezza spropositata li inghiottono; la dimora che al primo apparire significava lo splendido apogeo degli Amberson si rivela una casa da incubo, come il “grande, malinconico palazzo di stanze buie” del romanzo di Hawthorne, “dove il capostipite dovrà morire e i suoi posteri conoscere l’infelicità”. Al centro dell’incubo, la scala percorsa da Fanny – fragile Jago per un infantile Otello – mentre ordisce trame sibilando all’orecchio del nipote o gli singhiozza patetiche confessioni cercando di trattenerne la frenesia vendicatrice. Le tecniche del noir e del gotico sono piegate alla rappresentazione critica di un ordine famigliare e sociale, di personaggi affettivamente sterili e dunque pericolosi. Cieco di fronte al mondo per superbia e ansia di dominio, George non sa di essere un demiurgo malefico seppure schiavo a sua volta, vinto infine da forze che non può riconoscere. La vita sua e della sua famiglia, come quella di Charles Foster Kane, è integrata alla biografia della nazione e, nonostante l’apparenza di grandezza e potere, è sempre controllata dal Capitale: come in Citizen Kane il crollo di Wall Street consolida il potere dei grandi banchieri che mettono nelle proprie mani l’Inquirer, così negli Amberson il passaggio dal capitalismo famigliare e immobiliare a quello societario e mobiliare segna il tramonto della famiglia eponima e l’ascesa dei Ford, dei Rockfeller. I processi di ristrutturazione capitalistica soverchiano i destini individuali, li dominano invariabilmente. La vicenda privata sembra mettere in ombra i problemi sociopolitici ma ne riflette (come in un sogno freudiano) e subisce (come in un movimento tellurico) gli sviluppi. Il rovesciamento dei destini famigliari porrà l’ego astioso e tirannico di George di fronte all’illusorietà del proprio potere, al carattere oggettivamente delirante delle percezioni del giovin signore che afferma l’inutilità del lavoro quando passeggia, conscio solo di sé, in una città trasformata dal lavoro; egli pontifica sotto lo sguardo attonito di Lucy mentre scorrono sullo sfondo le immagini di una società ordinaria e indaffarata: un ferramenta all’ingrosso, un negozio di vernici, una lavanderia, un ufficio telegrafico, un’impresa edile, una barberia, una banca, un negozio di tessuti, un cinema, una farmacia. L’inettitudine di George ha risvolti umoristici; talora propriamente comici – come nel gag di lui che, ostile alle moderne automobili, viene soffocato dagli scarichi di quella di Eugene mentre cerca di facilitarne l’avvio. La stessa incapacità di adattarsi caratterizza George sino alla fine. Egli osserva come sia cambiata la città ma non riesce a integrarvisi, nonostante le intenzioni di sacrificio ed espiazione; vuole adoprarsi in un mestiere pericoloso (in quanto ben retribuito) ma non è in grado di attraversare una strada: per un’ultima paraprassia (l’incongruità tra voler fare e poter fare), viene travolto – ironia della Storia – da quell’automobile simbolo dei tempi nuovi e metonimia della rovina della sua famiglia.

In tema di visioni illusorie e illusionismi dell’immagine, non mancano artifici rivelatori. George si reca dalla vicina pettegola, che gli apre il portone di casa; la mdp sembra immedesimata nello sguardo di lui, ma dopo pochi secondi comprendiamo che si tratta di una falsa soggettiva. George parla con lo zio che sembra essere alle sue spalle; in effetti, stiamo osservando un’immagine nello specchio della stanza da bagno, e Jack è di fronte al nipote. Il volto di George si materializza come una demoniaca potenza che ha distrutto la felicità della propria madre: è un riflesso sul vetro della finestra mentre il ragazzo osserva Eugene allontanarsi. Oltre a scrutare contemporaneamente due personaggi evitando la coppia campo/controcampo, l’autore specula qui sui rischi della visione, in cui l’occhio della mdp e quello dello spettatore si sovrappongono. Nei primi due casi, George è mosso dalla calunnia su sua madre; nel terzo, è convinto di aver inflitto a Eugene l’umiliazione definitiva. Si crede sapiente ed è manipolato, si crede onnipotente e sta per subire la più dolorosa disfatta; altrettanto lo spettatore si crede immedesimato in un personaggio e non lo è, crede di vedere un oggetto e ne sta osservando l’impronta. Welles lo mette in guardia dalle insidie del mezzo, un seducente potere che per ingannare si affida alla collaborazione della vittima: può farle vedere ciò che vuole, farle credere ciò che vuole (“la gente penserà solo ciò che voglio”, affermava il magnate della stampa Charles Foster Kane), indurla a fare ciò che vuole. Sarà una riflessione costante nell’arte del regista, suggerita dagli effetti di suggestione collettiva prodotti dalla trasmissione radiofonica The War of the Worlds: una meditazione sulle inquietanti implicazioni della comunicazione di massa e sulla stessa opera d’arte siccome ingranaggio di una società mediatica.