TRAMA
Los Angeles 2044. Joe è un Looper, un killer che uccide su commissione persone mandate indietro dal 2074, anno in cui è possibile viaggiare nel tempo. La retribuzione consiste in lingotti d’argento allegati nel corpo dei condannati. All’improvviso però una delle vittime risulterà essere proprio lo stesso Joe, di trent’anni più vecchio…
RECENSIONI
Con Looper Rian Johnson ha chiuso il cerchio, riuscendo finalmente a controllare la sua idea di storytelling con il gioco di traiettorie e possibilità multiformi che ne derivano. E' fuori discussione la rassegnata fiducia verso la finzione, una trappola (temporale) manipolabile in cui ci perdiamo volutamente e che utilizziamo per comprendere il reale. Già in Brick e in The Brothers Bloom l'autore insisteva sulla fuga dentro di essa, in una proliferazione di enigmi e artifizi che mettevano a dura prova ogni appiglio di verosomiglianza, fagocitata dall'afflusso derivativo di generi e stilemi altrui, rimescolata su più linee narrative mai del tutto risolte. I personaggi però cercano una qualche fuoriuscita da questo feticismo cinefilo e, seppur abbracciandone il meccanismo, ambiscono a un qualcosa di non scritto, fuori dalle logiche di un mondo costretto anemicamente a ritornare su se stesso. Un loop per l'appunto.
Looper vive di fantasmi futuri che poi, a conti fatti, sono più ancorati al passato iconografico. Lo sci-fi è un pretesto come lo è lo shitty time travel, perché fin da subito si percepisce il ricorso a un immaginario costruito con echi retrò che scivolano tra il western, il noir, il thriller, tutti legati insieme da una riconoscibile estetica da comic book. Proprio il viaggio a ritroso del Joe/Willis, pur prefigurando un futuro distopico e quindi la volontà di impedirne la realizzazione, porta con sé la memoria di una violenza cinematografica categorica e manichea. Insomma, Bruce Willis interpreta la sua maschera per eccellenza. Il Joe/Gordon-Levitt invece, messe da parte le logiche individualistiche dell'imperante capitalismo, si oppone a questo coatto desiderio di ristabilire l'ordine, riscrivendolo mediante l'annullamento dei suoi rigidi valori. E' una scelta umanista, pronta a (s)vestire la fantascienza e a romperne l'illusoria e allucinogena scappatoia in vista di un ritorno alle origini (la casa di Sara e Cid) che possa porre le basi per una nuova Storia ancora da mettere in scena (I want an unwritten story Bloom in The Brothers Bloom). Un ennesimo tassello per un cinema contemporaneo ossessionato dal tentativo di correggere la realtà mettendo in scena la propria negazione e i limiti di una finzione così insistente nel dimostrarsi tale, nella fermezza che il terreno di scelta è fuori dallo schermo/telo.
A volte, bastano alcuni dettagli ad elevare un già buon film di genere: quello del regista di Brick (sempre con Joseph Gordon-Levitt) è pregevole per la scrittura, intrigante nelle idee che giocano con i paradossi temporali, elaborato nel montaggio che li esalta, con la giusta dose d’azione ed una spettacolarità che sa anche fare a meno degli effetti speciali. Una drammaturgia a scatole cinesi alla Christopher Nolan, con pizzichi di Terminator (il “messia” che emissari del futuro vogliono terminare), La Maledizione di Damien (il bambino inquietante come un anticristo) e con tante opere alle spalle fondate sui viaggi nel tempo (Bruce Willis, oltretutto, incontrava già se stesso in Faccia a Faccia e L’Esercito delle 12 Scimmie). Tutto eseguito alla perfezione, marchette per la star ingaggiata e co-produzione cinese comprese (l’immancabile scena iperbolica alla Die Hard, in cui Willis stermina senza fatica; l’amata è asiatica e Bill Pullman consiglia di godersi la pensione in Cina). Ma sono i particolari ad aprire altri orizzonti: a parte i numerosi riferimenti che può avere il titolo (si entra in loop: Rian Johnson, all’inizio, mostra il Ricomincio da Capo monotono di Joe), il colpo di scena finale chiosa un discorso sotterraneo sulle esistenze solitarie (la madre del “mostro”, convinta che il figlio non avrà mai lo “sguardo perduto” degli altri uomini), segnate paradossalmente da un ciclo impiegatizio, decise da demiurghi irraggiungibili. C’è anche una riflessione sull’amore salvifico, quello in nome del quale il Joe adulto compie, soffrendo, crimini inenarrabili, quello verso il figlio di una madre (fino a chiudersi in cassaforte: potente ed inquietante) o quello non ricevuto, ma compreso, dei figli abbandonati (Joe si specchia nel piccolo uomo): Johnson gira un grande film di genere anche perché chiude con l’umanesimo dell’abbraccio di una madre, declamando che se il futuro non è scritto non lo è neanche il passato, quando si ha la volontà di sacrificarsi per un mondo migliore.