
TRAMA
Oregon, anni settanta. Una bambina con una Polaroid nota un’auto nel vialetto e, attirata dietro casa da una voce misteriosa, viene avvicinata da un eccentrico uomo truccato di bianco.
RECENSIONI
Indovinello: chi è quel tizio istrionico esperto di programmazione neurolinguistica che si è invaghito del satanismo? Longlegs!
Scherzi a parte, non c’è niente da scherzare, almeno se si vuole assecondare la direzione che Perkins, abile trasformista fra i registri dell’orrore (dal minimalismo metafisico di February, passando per il gotico e rarefatto Sono la bella creatura che vive in questa casa, fino al folk-fantasy visionario di Gretel e Hansel), imprime al suo quarto lungometraggio. La nuova (?) promessa (?) dell’horror opta questa volta per un’aria malsana, vischiosa, dal primo all’ultimo secondo. Asciutto, senza speranza, claustrocore, questo è il suo Longlegs. Ogni sguardo è fuori posto, ogni passo sembra nella direzione sbagliata per la protagonista Lee, giovane agente speciale dell’FBI che si trova invischiata in un bruttissimo pasticciaccio: un serial killer misterioso stermina famiglie, ma lo fa contumace e per interposta persona, e lei pare essere l’anello mancante per la risoluzione del caso.
Ora, partendo da quello che i siti di recensioni del giorno d’oggi chiamano “comparto tecnico”, chiariamo che regia, fotografia, etc, sono oggettivamente curatissimi. Che piacciano è una questione di gusto e di umore, i quali come sappiamo possono variare con il tempo. Certo è che Longlegs è un film che devi avere voglia di vedere. Un film da pomeriggio uggioso, in cui ti sale quel languorino di anni ‘90 (ricorre ossessivamente il ritratto di Bill Clinton negli uffici dell’FBI), atmosfere noir, pulsioni paranormali, americani fatti a fette a colpi d’ascia, e Nicolas Cage. Esiste questa giornata? Non lo sappiamo. Ma certo l’ultimo elemento, l’irredimibile Cage, può fare venire l’acquolina in bocca.
Nel film lo vediamo truccatissimo, ma il camouflage sortisce ça va sans dire una specie di effetto riflettore. Cage è così Cage che più Cage non si può. Trasuda se stesso, nei suoi scleri e nel suo overacting, e c’è da dire che in questo caso funziona (quando non funziona?), per motivi che non esitiamo a definire drammaturgici. Perché il tema del film, quello vero, quello viscerale (così ci siamo inimicati anche gli anticinefili a caccia di aggettivi inflazionati), sarebbe l’insensatezza del Male con la M maiuscola. O, meglio, l’insensatezza del Male nel colpire randomicamente, scriteriatamente, con solo la parodia di un movente (le date di compleanno come bersaglio), e nel pieno di un circuito perfidamente tautologico: il Male c’è perché c’è. Lee e tutto il mondo attorno non possono che prenderne atto, provare a non farsi trascinare nell’abisso, farselo scivolare addosso. E allora l’ipertrofia di Cage assume una sua dignità plot-specifica, reificando la proverbiale beffa oltre al danno. Invero le letterine in alfabeto cifrato del serial killer, il suo strologare bizzarro, il farneticante inneggiamento al diavolo con risolini acuti, non vanno presi sul serio. Mi spingo oltre: prenderli sul serio porta a concludere che il film è brutto, perché nulla (o quasi) sembrerebbe perfettamente comprensibile o logicamente legato da una consecutio. Tutti i tratti definitori del villain vanno dunque interpretati come manifestazioni di un delirio, perfettamente compiuto in sé, fuori da ogni pretesa di continuity, e capace di generare un’orrida scia di morti e di irrisolti, che Lee coagula attraverso il suo trauma.
Allora se Longlegs è questo (e ci sentiamo di dire che è almeno anche questo) il film vale la pena. E val la pena di tollerare un certo esibizionismo registico e nell’editing, il simbolismo talvolta smaccato, le concessioni paranormali (perfettamente rivedibili in seno alla teoria dell’assassino come grande plagiatore) e così via.
Se il contemporaneo ha riscoperto – n’ata vota – il fascino del serial killer, producendo una ammorbante e infinita serie di podcast true crime gli uni uguagli agli altri, Longlegs sembra riarticolare il filone in maniera non scontata, utilizzando i protocolli del giallo classico non come fine, ma come mezzo per una missione più filosofica.
Un film sensato, proprio perché di primo impatto insensato. Servono, a vederci tutto questo, ovviamente un po’ di sforzo e una giornata buona, ammesso che esista.
