Gremese

LO ZOO DI VENERE di Peter Greenaway

Anno2019
Casa Editrice
Prezzo18
Pagine143
CollanaI migliori film della nostra vita
ISBN9788866920168

Un libro che vuole raccontare un film irraccontabile e dimostrare come dietro le immagini di quella che sembra un’opera astrusa, enigmatica e sfuggente sussista sempre senso, logica e motivazione.

Dalla quarta di copertina
«Uno zoo. Due fratelli etologi. Un incidente provocato da un cigno. Due morti e un insolito percorso di elaborazione della perdita. E ancora: tassonomie, le otto tappe della selezione naturale di Darwin, la Genesi, il Pantheon greco, i quadri di Vermeer, l’alfabeto (il finito), l’esplorazione dei fenomeni naturali (l’infinito), Caso e Necessità, Ordine e Caos. Lo zoo di Venere è un film che mescola matrici visive e concettuali differenti che si fondono in uno sguardo d’insieme sul trauma del lutto e sul fascino della decomposizione dei corpi. Coacervo di teorie scientifiche, giochi figurativi e sottotesti filosofici, è un oggetto inafferrabile, tanto controverso quanto ironico, che si dipana in una giungla di riferimenti culturali, senza spacciare plausibilità o morali. Il secondo lungometraggio commerciale di Peter Greenaway è anche un complesso puzzle di storie in fieri che sollecitano domande e alimentano dubbi, di logica in apparenza inafferrabile, ma in realtà rimandante a un più alto disegno complessivo. Testimonianza di un’idea di cinema già pienamente matura, è un film che propone tutte le istanze – passate, presenti e future – dell’opera del suo autore, aperta, come poche altre, ad accogliere medium e linguaggi differenti».

Dall’introduzione al volume dell’autore
«L’opera del regista si risolve in rappresentazioni gelide, distaccate, radicalmente antihollywoodiane, contrarie quindi ai meccanismi manipolatori della commozione o dell’empatia propri del cinema classico. Tutti i suoi film sono antisentimentali e antimeditativi, dunque, anche se in essi dolore e sofferenza occupano un posto centrale: nessun lieto fine nella filmografia greenawayana, nessuna concessione a redenzione o catarsi. Questo suo secondo lungometraggio attesta tale carattere con forza, testimonianza che il cineasta-demiurgo andava delineando un universo filmico con caratteristiche già consolidate, riconoscibili. In quell’universo, che scoprivo per la prima volta, rinvenivo un’idea di cinema che condividevo in pieno, fatto di ossessioni (dunque sincero), che si muoveva in un territorio che si apriva ad altre arti (solo due esempi: la pittura – il regista nasce pittore, del resto -, e la musica – si pensi al ruolo che hanno le note di Michael Nyman -), in cui la narrazione abdicava facilmente per onorare altri sistemi di collocazione e ordinamento della materia (nel caso de Lo zoo di Venere, l’alfabeto). Un cinema diverso da tutto quello che avevo visto fino ad allora. E da allora il mio cinema preferito».

Luca Pacilio è il direttore della rivista che state leggendo. Collabora con il settimanale FilmTv ed è autore di Il videoclip nell’era di YouTube (Bietti, 2014)

Il libro (scontato se acquistato online) è prenotabile qui