TRAMA
Estate, un luogo d’incontro per soli uomini sulle rive di un lago. Franck si innamora di Michel, uomo bello e pericoloso. Franck è consapevole dei rischi, ma non vuole rinunciare alla passione.
RECENSIONI
L’inconnu du lac, eleggendo il luogo non solo a scenario decisivo, ma a protagonista tacito, restituisce la quotidianità, fatta di segnali muti, di quella che altri chiamerebbero comunità (e che è invece l’esatto opposto: un coacervo di distinte solitudini - le auto, testimoni silenziosi, parcheggiate come tante isole -): i bagnanti passano dalla spiaggia al bosco - un battuage primevo, ancestrale - che restituisce, agli sguardi famelici, frammenti di corpi congiunti, dettagli di carni tra le foglie. In questo contesto, di cui si rende una rappresentazione quasi teatrale - fatta di sipari/giornate e di una struttura ciclica che riproduce la rituale coazione a ripetere del desiderio - si accumulano lentamente, ma inesorabilmente, gli avvenimenti che intrecciano la trama e annodano la suspense. Attorno all’evento chiave (l’omicidio), tra le maglie di un genere preciso (il giallo), si afferma il tema principale, quello della qualità mendace del sentimento, dell’illusione dell’attrazione amorosa, dell’infingimento mentale, quel cervellotico paravento sentimentale dietro il quale ci si nasconde, lasciandovi davanti una passione alla quale si dà il nome di un’altra persona, invece che il proprio. In un microcosmo fatto di fugaci amplessi, di abbordaggi di persone ignote, il protagonista entra come un’anomalia: perché fa amicizia con Henri (figura emarginata in quanto aliena dalle logiche del contesto, dunque letteralmente fuori luogo) e perché fissando la sua attenzione su una sola persona, consacrandogli la sua attesa, contraddice il locale uso della promiscuità. L’ispettore è invece, come nel precedente film del regista, l’osservatore esterno (la morale eterosessuale), un’invenzione quasi chabroliana, colui che valuta le cose che accadono con occhio distaccato, essendo fuori dai giochi relazionali, giochi che vuole comprendere e schematizzare ai fini delle indagini; ottenebrato da quell’unico obiettivo, non considera l’investimento umano che risiede nelle pratiche del luogo: pagherà per questo.
Sembra un film realista, Lo sconosciuto del lago, ma tutto quanto vi accade rientra in un discorso studiatamente artificioso (il thriller allora lo si fa vivere nelle parole dei protagonisti, nella lotta psicologica che sottintendono e, solo alla fine, in una fuga) e mediatamente, metaforicamente rappresentativo del mito erotico. E se lo sconosciuto del titolo potrebbe essere Michel come Franck - ma anche la vittima - e sconosciuti gli uni agli altri sono tutti i personaggi che abitano la scena, caratteri di cui anche lo spettatore non sa nulla, a parte l’immediato di quelle giornate di sole -, sconosciuto, nel lago, sembra soprattutto l’Amore, fantasma mentale che si manifesta nella fame che di esso ha Franck - che spasmodicamente lo cerca nel posto sbagliato e che evidentemente decide di trovarlo in Michel a qualunque costo, anche quello, appunto, di mentire a se stesso - e che, quando si dissolve del tutto, continua ad essere disperatamente evocato (lo straordinario, tristissimo finale): è un film che, da questo punto di vista, interroga ogni spettatore sulla natura dell’attrazione per l’Altro come proiezione del proprio bisogno, come chiave che apre le porte di un’emotività che raggira persino la propria illusione.
Sempre ancorato a una rappresentazione del corpo (non solo del sesso) priva di filtri e non idealizzata (è in questo il dato veristico del lavoro), rappresentazione che ha del rohmeriano e in cui i personaggi deambulano, nuotano, prendono il sole, parlano, si toccano, vivono la passione prosaicamente in una geografia ristretta e incontaminata, scenario-eden abitato da una popolazione solo maschile, Guiraudie, dopo Le roi de l’evasion - che, proponendo un discorso simile, rimaneva però intrappolato nelle trame della pochade a cui si richiamava (qui ne ritroviamo una traccia nel personaggio del masturbatore) - ne ribadisce l’estetica in un film di diverso rigore che, nonostante la suddetta impronta natur(al)ista, suona superbamente mentale, squisitamente astratto, e in cui il genere si congiunge con fluidità al simbolo, in una dimensione quasi epica (le figure nude immerse in un’arcadia possibile, divise tra il sole abbagliante e le tenebre notturne): in essa si dipinge, con uno sguardo distanziato e l’insistenza del piano fisso, la favola archetipica del Desiderio dell’Altro che, per il fatto di essere bramato, viene ricreato da quel desiderio; l’apologo della fantasia, insomma, di immobilizzare l’Altro in una propria, personalissima gabbia mentale, per paura che fugga e si smaterializzi nell’impatto col reale. L’apologo di Franck allora diventa quello universale della misteriosa magia dell’incontro (nelle forme di una love story), della dolce angoscia e della sottile paura legate all’attrazione (su questo gioca il thriller), della dialettica continua tra tenerezza e sensualità (qui interviene lo psicologico - in tenuta freudiana -), così come ce le si rappresenta e si decide di viverle, nei fatti (realtà) e nella propria testa (astrazione). Ineccepibile e coraggiosa la scelta della Teodora di distribuirlo in originale, non intaccandone quel suono (cha va dallo stormire delle fronde, allo sciabordio dell’acqua tagliata dai corpi) che è l’irriproducibile score musicale di un film a suo modo romantico, guardando all’amore e al desiderio in tutto il loro potenziale chimerico, con un’intensità illusoria commovente, come da tempo non era dato vedere al cinema.