Recensione, Thriller

LO SCIACALLO (2014)

Titolo OriginaleNightcrawler
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2014
Genere
Durata117'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Los Angeles. Capitato per caso sul luogo di un incidente stradale, Lou Bloom, ladruncolo di materiali edili, intuisce che si possono fare molti più soldi con il crime journalism. Con una telecamera e una radio, si tuffa nella notte losangelina, vendendo filmati dove il sangue scorre a fiumi a un network assetato di share.

RECENSIONI

Brutale e allucinatorio esordio alla regia dello sceneggiatore (Freejack, The Bourne Legacy) Dan Gilroy, che confeziona un thriller metropolitano che ha come baricentro il corpo e il volto – occhi enormi e tondi, in un viso consunto dalla dieta (brutale anche quella) – di un Jake Gyllenhaal mai così inquietante. Il suo Lou Bloom, che si aggira con andatura dinoccolata e nervosa per le notti di Los Angeles, fiutando il sangue che sporca i quartieri alto-borghesi, porta anche nel nome le stigmate dell’antieroe errante di James Joyce, ma è un sottoprodotto del sogno americano andato a male. Bloom, che si muove per le strade di Los Angeles come su una scacchiera, è l’incarnazione dell’anima nera della città stessa. Infarcito di frasi fatti sull’etica del lavoro e del profitto, porta al parossismo il desiderio di affermazione dell’uomo medio, qui declassato da una crisi economica il cui tam tam echeggia di continuo da radio/televisione/internet. Senza cultura di base e senza legami affettivi, l’atomizzato Bloom apprende tutto quello che sa attraverso il filtro schizofrenico della rete. Eppure il suo desiderio di affermazione si manifesta attraverso gli stilemi più tradizionali. Bloom vuole un orologio, una muscle car rosso-fiammante, una donna compiacente al suo fianco e una piccola impresa in espansione. Per trovare un personaggio parzialmente simile, si può forse guardare al Tony Manero di Pablo Larraín. Là, un uomo apparentemente lucido e sicuramente spietato si dimostrava pronto a tutto, sabotaggi e omicidi inclusi, per realizzare la sua personale versione del sogno americano, diventare il John Travolta de La Febbre del Sabato Sera. Bloom ne eredita la follia, il sangue freddo, la determinazione, e la capacità di muoversi in universo morale/sociale profondamente destrutturato. Con la differenza che i suoi obiettivi potrebbero anche rivelarsi più affini ai nostri.

La progressiva espansione del business di Bloom va in parallelo con il crescere delle efferatezze, con un climax drammatico che trova il suo culmine nella sparatoria (con strascichi) durante la quale lo sciacallo, da spettatore e poi cameraman, si trasforma in regista/sceneggiatore, modificando la trama degli eventi successivi a proprio uso e consumo. La regina del network cui Bloom vende i suoi video è la solo apparentemente granitica Nina. Un contatto in scadenza e la caduta libera degli ascolti (del tg dell’ora dei vampiri nel canale meno visto di Los Angeles) la spingono a compromettersi sempre di più con il giovane free-lance che le promette scoop in cambio di dollari e upgrade sociale. C’è una soglia non troppo sottile fra il diritto di cronaca e la manipolazione del reale a scopi commerciali, ma in un mondo di lupi i dettagli vanno perduti.

Prodotto dall’indipendente Bold Films e girato per tre quarti di notte, Lo Sciacallo prende forma fondendo la riflessione sui nuovi mostri foraggiati dalla crisi morale/occupazionale con la sempreverde – da Quinto Potere in avanti, almeno – critica del potere distorcente dei mezzi di comunicazione. La denuncia dell’egemonia culturale dei mass media, con la violenza elevata a spettacolo, fa da sponda al tema più generale (generico?) della crisi dello sguardo, con l’annessa incapacità di tracciare un confine fra realtà e finzione e di intrattenere un rapporto diretto – personale e umano – con il mondo. In un’inquadratura emblematica, frontale, al centro del misero salotto di Bloom – che vive da solo alla periferia di Los Angeles in una casa mezza diroccata –, troneggia uno schermo televisivo, un faro di luce nella penombra. Bloom, ancora soltanto uno spettatore, è confinato nell’angolo destro in basso. Quasi non lo si nota, mentre assorbe incantato le immagini che provengono dallo schermo, nutrendosi della loro forza magnetica. È solo una delle svariate inquadrature che sfidano l’occhio dello spettatore, riempiendo lo schermo di particolari e indizi da decifrare, contrapponendosi a quelle – scarne e semivuote – in cui tutto ciò che c’è da vedere, senza scampo, è lo sguardo enigmatico o il volto di profilo di Bloom che guida nella notte a velocità folle. La deriva del protagonista, più amorale che immorale, trova il suo corrispettivo nelle visioni notturne – la fotografia è di Robert Elswit, storico collaboratore di Paul Thomas Anderson – illuminate da bagliori e luci al neon. Più di qualche reminiscenza di Drive, ma senza la sua romantica nostalgia. Uno sfondo di miseria urbana che, nelle rare scene diurne – con le inquadrature dall’alto della catapecchia di Bloom –, rivela tutto il suo squallore. Sul thriller psicologico di ambientazione giornalistica con sprazzi di action movie, prevale quindi un’anima disturbante, nerissima, quasi orrorifica. Ed è questo, a conti fatti, l’aspetto più interessante. L’interpretazione di Gyllenhaal trasforma la teoria in prassi. Ciò che resta è, infatti, soprattutto il senso di disgusto viscerale –­ stavolta sì, anche morale –, esaltato dallo sguardo neutro della macchina da presa e dal finale beffardo, che si prova di fronte alle notti dello sciacallo.

Dopo aver sceneggiato, fra gli altri (e senza aver mai sorpreso più di tanto), il Bourne Legacy diretto dal fratello maggiore Tony (qui co-produttore), Dan Gilroy, affiancato dal fratello gemello John al montaggio e dalla moglie Rene Russo, esordisce e si fa notare con un thriller giornalistico che non sosta solo su di un racconto sopra le righe, ma si fa apprezzare per i sottotesti acidi sulla contemporaneità. È fondamentale la prova di Jake Gyllenhaal (anche produttore), sempre più impegnato in film scomodi ed originali cui dona la consona maschera: questa è impassibile, priva di emozioni, misantropa (nell’unico momento in cui è se stesso, Louis Bloom, arrabbiato, spacca un vetro, guarda Il Giullare del Re in Tv e ride), senz’altro psicotica nell’adottare un’identità (da corso online) che applica in modo vincente e privo di codice morale per cui, se il “business plan” incontra ostacoli, basta rimuoverli, anche attraverso il crimine. Ecco, cioè, l’acido corrosivo gettato sul sistema capitalistico, dove il “manuale del perfetto dirigente d’azienda o impiegato” trova asilo in ogni branca della vita e dove l’obiettivo del potere economico sacrifica tutto al suo cammino. Dietro al personaggio, poi, s’intravede il dito puntato su di una generazione figlia di internet e tuttologa che ha tutte le potenzialità a disposizione ma perde di vista qualsiasi ideale, se l’unico scopo che gli viene proposto dal Sistema è di essere economicamente e socialmente vincente. Lo script offre anche una chiave di lettura metacinematografica, con il “regista” che manipola la realtà e la propria immagine. L’opera, alla fine, più che sviluppare questi temi, preferisce affondare i denti in un ottimo cinema di genere con chiusura ad effetto, ma ottiene un posto di tutto rispetto nel sottogenere, figlio di L’Asso nella Manica, che affronta la mancanza di etica nel giornalismo. Il titolo italiano c’entra e non c’entra: oltre che creare confusione con film omonimi celebri, addita la veste da “sciacallo” del protagonista (ma Gyllenhaal ha più volte dichiarato di essere dimagrito per sembrare un coyote, di quelli solitari che ogni tanto s’aggirano per Los Angeles) ma non coglie, come l’originale, la natura notturna del film e lo studio cromatico urbano stile Collateral.