TRAMA
Terry Wolfmeyer, moglie e madre tranquilla, vede la propria vita di provincia cambiare radicalmente quando viene abbandonata dal marito. Terry si ritrova inaspettatamente sola, alle prese con una nuova, difficile, situazione familiare. L’alcool sarà il primo rifugio, poi arriverà l’affetto di un vicino di casa.
RECENSIONI
Una donna piantata in tronco dal marito, fuggito in Svezia con la segretaria, trova consolazione nella bottiglia. Un uomo, ex-giocatore di baseball riciclatosi come deejay radiofonico, diventa il suo compagno di bevute. L'incontro di due solitudini, pur tra incomprensioni e false partenze, riuscirà ad aprirsi un varco di complicità. Il titolo originale, "The upside of anger" (all'incirca "Al culmine della rabbia"), rende maggiore giustizia agli intenti del regista e sceneggiatore Mike Binder, mentre la variante italiana lo relega nell'anonimato. Facilonerie distributive a parte, il lungometraggio non riesce comunque ad approfondire un tema invece importante come l'incapacità di affrontare la propria rabbia. Il copione di Binder, infatti, la rappresenta solo negli effetti che determina e si limita a sostanziarla come conseguenza dell'abbandono, glissando in modo meccanico su una fragilità covata probabilmente in anni di solido (ma davvero appagante?) matrimonio. In questo senso non c'è alcuna progressione nella narrazione. Nulla viene scoperto (a parte il discutibile colpo di scena finale) che non sia già palese dopo dieci minuti di visione. Spacciando aggressività e antipatia della protagonista per indagine della sua ira, l'autore non riesce neanche a conciliare il taglio tutto sommato leggero del racconto con la drammaticità di alcune svolte (per tacere della brevissima virata cogito-splatter, totalmente stridente). Una messa in scena piatta pare quindi il riflesso della convenzionalità dei caratteri e delle scontate tracce di vita con cui la sceneggiatura cerca di rimpolpare blandamente la storia. Modesto è infatti il contributo delle quattro figlie, che paiono uscite da una sit-com ispirata a "Piccole donne" e con i loro turbamenti si fanno portatrici di un punto di vista totalmente anacronistico (per non parlare degli abiti). Non basta rendere i costumi più disinibiti o aggiungere la videata di un televisore sempre acceso sull'attualità per aggiornare ai tempi un film che sembra scritto, girato e pensato cinquant'anni fa. Così come non convincono le scaramucce etiliche dei due protagonisti, in cerca soprattutto, invano peraltro, della simpatia del pubblico. Nel cast si distingue la luminosità di Evan Rachel Wood, la più giovane del gruppo, anche lei però vittima di un personaggio assai stereotipato (la ragazzina innocente e matura a cui è affidata la morale del film nel didascalico finale). Le altre pacioccone si limitano a presenziare, tra moine, lacrime e risate. Tra i due protagonisti, se la cava meglio un Kevin Costner consapevolmente imbolsito di una Joan Allen spesso eccessiva. Artificiose le numerose sequenze in cui la famiglia riunita pare in costante posa per una fotografia da porre sopra al caminetto (le ragazze ordinatamente affiancate per scrutare il cielo e confidarsi, oppure sedute una accanto all'altra su una panchina a ridere e scherzare) quasi a voler avvalorare un affiatamento e un'idea di vita vissuta e condivisa tra gioie e dolori che, però, non supera mai i contorni di una pigra superficie.