Drammatico, Recensione, Sala

L’INVENZIONE DELLA NEVE

TRAMA

Carmen ama troppo intensamente, troppo a modo suo e il mondo non glielo perdona. Lei e Massimo si sono lasciati, ma Carmen continua a considerarlo l’uomo della sua vita. Adora Giada, la figlia che hanno avuto insieme e che adesso ha 5 anni. La bambina è stata affidata al padre, alla madre il permesso di vederla una volta ogni quindici giorni. Carmen non ci sta: sa di aver commesso degli errori, ma anche di essere una buona madre e non permetterà che accada di nuovo quello che è successo a lei da bambina. Se il mondo la vuole distruggere, lei trasformerà il mondo.

RECENSIONI

Il film di Vittorio Moroni rielabora in modo personale quello che potrebbe essere uno dei tanti fatti di cronaca che scorrono sotto i nostri occhi nel quotidiano. La particolarità dell’approccio del regista è quella di adottare una messa in scena sperimentale che diventa un vero e proprio laboratorio creativo dove non ci sono tesi da esporre o un giudizio nei confronti dei personaggi, ma una ricerca di verità. La storia è facilmente riassumibile. Un uomo e una donna con vari problemi di relazione e un passato di tossicodipendenza si ritrovano a essere genitori. La donna è stata gradualmente allontanata dalla figlia, affidata al padre, ma lei fa di tutto per cambiare le cose. Impariamo gradualmente a capire i dettagli della vicenda attraverso i sei quadri in cui il film è suddiviso. Quadri che sono stati a lungo preparati per poi essere girati nell’arco di diciotto giorni (tre per ogni raccordo). Un tempo in cui gli attori hanno smesso di essere attori e sono diventati i personaggi, in un’adesione che sembra sempre attingere a un dolore vero, profondo e personale. Nell’ambito delle tre giornate previste per ogni quadro, dedicato ognuno a un personaggio determinante ai fini della comprensione del racconto, il regista ha girato in piano sequenza lasciando gli attori liberi di improvvisare, assemblando poi in fase di montaggio i momenti più riusciti e significativi.

Ciò che emerge è la complessità di una situazione problematica in cui trovare la quadra e uscirne indenni è impossibile. L’unica via di fuga da un passato che pesa come un macigno condizionando un presente che si finisce per subire, in mancanza di strumenti psicologici adeguati, è nell’uscita dalla dimensione reale, perché solo la fantasia può fungere da tonico per ferite, inferte e subite, insanabili. Dal punto di vista visivo la fuga in un mondo immaginario dove tutto è possibile, anche salvarsi, è resa con efficacia attraverso l’ausilio del cinema di animazione che con grande fluidità porta noi, e i personaggi, in un altrove salvifico dove i problemi si ridimensionano e sfumano in estro e magia. Il risultato comunica un mix di disagio e tenerezza e prima di tutto finisce per spiazzare. Perché non si sa che posizione prendere, per quale personaggio parteggiare, dove collocarsi in un racconto dove non è la razionalità il motore dell’azione. Una sensazione di disagio che non concilia e fa stare scomodi, importante perché favorisce l’empatia verso punti di vista che non si sarebbe pensato di poter condividere. A emergere è la profonda umanità dello sguardo che ci chiede, per una volta, di osservare, non di trovare una soluzione ma di restare in ascolto. In silenzio.