TRAMA
Minato, 11 anni, vive con sua mamma vedova e inizia a comportarsi in modo strano, tornando da scuola sempre più avvilito. Tutto lascia pensare che il responsabile sia un insegnante, così la madre si precipita a scuola per scoprire cosa sta succedendo…
RECENSIONI
Tornato in patria dopo esperimenti poco riusciti in Francia e in Corea del Sud, Hirokazu Kore-Eda torna a convincere. Lo fa con una variazione “perversa” di quello che da sempre è il suo maggiore punto di forza: il portare agli estremi una scrittura iperstratificata fino a che essa si ribalta, autocancellandosi, nella trasparenza. In opere ultraclassiche come Il terzo omicidio (forse il picco assoluto raggiunto dal suo cinema), la stratificazione e la cancellazione coincidono, perfettamente sovrapposte e indistinguibili, dall’inizio alla fine. In una molto più libera e quasi eccentrica come L'innocenza, Kore-Eda gioca a distribuirle su due tempi diversi. Prima una, poi l’altra.
Nella prima metà, un opacissimo caso di abuso scolastico indagato da due punti di vista diversi: prima quello della perplessa madre del piccolo e sempre più strano protagonista Minato, e poi quello di uno dei suoi professori, finito suo malgrado sul banco degli accusati. Man mano che la qualifica di “mostro” passa da soggetto a soggetto, il film sembra incanalarsi sui binari di una lodevole coscienza civile dotata di notevole polso diagnostico circa le specificità della nostra epoca: non tanto (benché non si tratti affatto di un aspetto marginale, tutt’altro) perché mostra scuola e famiglia come due fazioni in perenne conflitto reciproco, quanto perché mette benissimo a fuoco la tendenza, diffusissima oggigiorno a ogni livello, a rimuovere i conflitti, e all’evitare di affrontarli veramente guardandoli in faccia per quello che sono, perché è più facile nascondersi dietro alla demonizzazione pretestuosa di qualche estemporaneo capro espiatorio. Se però da un lato è lodevole, come si diceva poc’anzi, che venga ricordato come la realtà è più complessa di ogni polarizzazione di comodo, dall’altro ciò avviene attraverso una scrittura un po’ pesantemente “alla Rashomon”, la quale mostra la situazione da più punti di vista con grande attenzione verso la creazione strategica di omissioni che verranno poi rabboccate in seguito. Scene brevi, di carattere perlopiù informativo, senza particolare respiro.
Il respiro, però, arriva eccome nella seconda parte. Con il passare del punto di vista a Minato e al coetaneo Yori, l’ingegnoso ma un po’ pedante marchingegno narrativo che caratterizzava la prima parte approda finalmente all’autocancellazione. L’ambiguissimo, ma ineccepibilmente credibile e innocente rapporto tra i due bambini è mostrato sotto il segno della trasparenza. Il presente un po’ rachitico della prima parte, funzionale solo ad incasellarsi nella linea del racconto, si dilata, nella seconda, nella grazia dell’infanzia, che guarda al tempo come a un’incessante esplorazione, in cui le aperture sboccano sempre su altre aperture.
La macchina narrativa è intatta. Tutto torna. L’intento esplicativo si compie senza alcuno strappo, senza alcuna lacuna. Nel corso del suo compiersi, però, ci viene dato accesso al “lato B”: tutt’altro che prigioniero della propria meccanicità, L'innocenza rivela il vuoto al cuore del meccanismo, l’innocenza al cuore della colpa, e soprattutto dell’ossessione adulta di distribuire le colpe e identificarle.