TRAMA
Poco prima delle festa di Natale, Clermont-Ferrand precipita nel panico dopo che un attacco terroristico colpisce la città. In questo clima di ansia, Médéric, sulla trentina, si innamora di una prostituta più anziana, Isadora.
RECENSIONI
Con Benedetta, Paul Verhoeven ha confermato al di là di ogni dubbio che solo i film che prendono sul serio le radici cristiane europee e le portano fino in fondo sono anche convincenti da un punto di vista LGBTIQA+. Con questo suo ultimo film, Alain Guiraudie conferma al di là di ogni dubbio che solo i film che prendono sul serio la prospettiva LGBTIQA+ e la portano fino in fondo sono anche convincenti dal punto di vista delle radici cristiane europee.
Come direbbe un comico italiano che lui apprezzerebbe sicuramente molto, Guiraudie è “l’uomo a cui appiopparono la fama di regista queer”. È lui il vero erede contemporaneo di Jean Cocteau, e non Pedro Almodovar (che da Cocteau ha fin dalle origini, evidentemente, preso le mosse), di cui il regista dell’Aveyron rappresenta la nemesi: anche quando, come in questo caso, si confronta con un grande classico dell’orizzonte queer (la soap opera), Guiraudie lo fa senza il minimo cinismo. Per cinismo qui non si intende solo la mania di conformarsi all’etichetta queer (cosa di cui non c’è mai stata la minima traccia nei film di Guiraudie – con la parziale eccezione de Lo sconosciuto del lago), ma anche, e soprattutto, il facile gioco di docce scozzesi tra distaccato disincanto e coinvolgimento emotivo che caratterizza molti tentativi di confrontarsi con l’orizzonte soap.
Anche se viene portata sufficientemente lontano da rendersi quasi irriconoscibile, mescolata con altro e redenta in commedia stralunata, il punto di partenza di L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice è senz’altro la soap opera: un sistema di personaggi in cui x ama y che però ama z e così via. Médéric ama la prostituta Isadora, che però non riesce a staccarsi dal marito; Charlène ama il giovane arabo Selim che però ama Médéric, vuole entrare nella jihad globale (a Clermont-Ferrand c’è appena stato un attentato di matrice islamica) ma lo frena Isadora che lo svergina provvidenzialmente. E quando Médéric viene corteggiato dalla ricca e bella Florence, lui rifiuta perché così è troppo facile. Come nella soap opera, al centro c’è infatti l’impossibilità intrinseca del desiderio, impossibilità che nella soap si fa rete e sistema. Come ci ricorda la psicanalisi, è per proteggerci da un qualche nucleo traumatico (e lo è senz’altro l’impossibilità che sempre troviamo al cuore del nostro desiderio, anche e soprattutto quando viene corrisposto dall’oggetto del desiderio) che ci creiamo un “fantasma”, uno scenario immaginario che lo rende sopportabile. Ma questo scenario non è mai completamente fittizio, proprio perché il nucleo traumatico da cui protegge è ben reale. Per questo, perfino fantasie paranoiche come l’identificazione tra l’arabo, il musulmano e il jihadista non sono “solo” false, ma hanno un nucleo di verità, non foss’altro che perché sono legate a un reale disagio sociale.
Eh sì: L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice ha il coraggio di farci identificare con un protagonista che ha fantasie paranoico-razziste che si rivelano non completamente false: Selim è per davvero tentato dal jihadismo, perché il suo (come quello di milioni immigrati delle periferie) è un disagio sociale vero. E non ha alcun problema a mostrare che gli immigrati di seconda o terza generazione possono essere benissimo xenofobi almeno quanto i vecchi maschi francesi, e anzi che la cosa non è affatto rara. È invece assolutamente impossibile che un film italiano, per ignoranza e coda di paglia, ammetterebbe questa che ormai è un’ovvietà per quasi chiunque non sia completamente cieco.
I fantasmi (nel senso psicanalitico di cui sopra) non sono dunque mai completamente veri né mai completamente falsi. L’arco principale del film vede Médéric andare dalla fascinazione amorosa verso il proprio oggetto di desiderio (Isadora) alla disillusione (Isadora che non corrisponde al fantasma che se n’è fatto Médéric, perché il desiderio non può non essere caratterizzato intrinsecamente dall’impossibilità, anche quando corrisposto), e parallelamente dal mistero socio-politico del terrorismo (i toni quasi sacrali, genuinamente interrogativi della ricognizione sul luogo dell’attentato) alla più terra-terra delle demistificazioni (se i jihadisti scopassero come si deve non si farebbero saltare in aria). Ma anche quando la consistenza immaginaria del fantasma viene pienamente svelata, non viene mai polverizzata né annullata. Fedele per davvero al magistero cocteauiano, Guiraudie non ci sottopone a docce scozzesi tra il caldo dell’adesione appassionata al fantasma e il freddo della distanza cinica e disillusa verso di esso. Niente docce, meglio la vasca da bagno: lo spazio amniotico in cui l’Orfeo cocteauiano nuotava dimenandosi alla meno peggio di là dello specchio, dove la sua immagine era mai completamente lui e mai completamente non-lui, diventa in Guiraudie l’esperienza di attraversare uno spazio vuoto (il footing di Médéric, le scampagnate ciclistiche del suo Le roi de l’évasion del 2009 e molti altri esempi) che lascia addosso una strana vischiosità, simile a quella che si sente addosso lo spettatore attraversando uno spazio filmico di impressionante ordinarietà (iscritta negli ambienti, nei dialoghi, nei toni, nelle pose, e soprattutto nei corpi, a partire da quello renatopozzettiano di Médéric) che trapassa con certosina gradualità, poco a poco, in un livello di astrazione/condensazione quasi da operetta ungherese (i meccanismi a orologeria degli incontri, del rimescolarsi delle relazioni eccetera), senza mai che sia chiaro in quale punto uno “stato della materia” sia trapassato nell’altro, dove sia il bordo tra il dentro del fantasma e il fuori del fantasma.
Questo rapporto col fantasma è la sostanza stessa del patto comunitario che fonda l’utopia conservatrice al cuore di L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice. Certo, si tratta di un conservatorismo illuminato, ma comunque più luminoso di qualunque facile progressismo alla moda: sarà un caso se Médéric e Isadora fanno sesso proprio in quella cattedrale in cui si incontrava la coppia protagonista di La mia notte con Maud di Éric Rohmer, uno dei film che più di tutti meritano l’etichetta di “conservatorismo illuminato”? Manco fossimo in The Searchers di John Ford, la comunità viene fondata, in un finale in cui viene sigillata l’indifferenza di ogni identità (Médéric è veramente gay o l’ha detto solo per liberarsi di Florence?), proprio grazie all’esclusione di colei che salva la baracca: la prostituta, il cui intervento ha fatto sì che Selim non diventasse jihadista. Insieme a lei però, viene escluso anche il marito: è quindi il patriarcato che viene escluso per fondare una comunità che, bisogna ancora sottolinearlo, si fonda nel modo più tradizionalmente patriarcale possibile: per esclusione. Il sogno perverso della castrazione castrata ha ancora, e più che mai, bisogno della Legge: nulla però, da San Paolo in poi, è più precisamente vicino alle radici cristiane del compiere la Legge affiancandole il suo supporto perverso.
Qui però la Legge è il rapporto di mutua, vischiosa indispensabilità reciproca tra nucleo traumatico (quello in cui si identifica l’impossibilità intrinseca del desiderio) e scenario fantasmatico che dovrebbe addomesticarlo, rapporto di cui in un modo o nell’altro tutti i membri della neocomunità finale fanno esperienza. È questo il collante di questa utopica comunità “neocristiana”, e lo condividono tutti. Tutti abitano la contraddizione in prima persona: Selim fianco a fianco, fra gli altri, del suprematista bianco armato fino al collo che ruba la droga (del cui furto accusa Selim) alla teppa che assedia l’immobile, dell’immigrato algerino xenofobo convinto che lascia il velo alla moglie, di un etero non troppo etero e un gay non troppo gay - ma non della coppia patriarcale di Isidora e il marito, che scelgono di autoimprigionarsi in quella soap sempiterna chiamata “matrimonio”, nella quale l’intrinseca impossibilità è il funzionantissimo motore stesso delle peripezie quotidiane. Così, il condominio della neocomunità rimane in piedi, intatto, nonostante gli venga sparato addosso, ma gli occupanti degli appartamenti vengono felicemente anagrammati: un’utopica riappropriazione illuminata del conservatorismo gattopardesco secondo cui tutto cambia affinché niente cambi.
Insomma: se il cognome di Médéric (nome medievalissimo) è “Roman”, un motivo ci sarà…