TRAMA
1864, Virginia, terzo anno della Guerra di Secessione. Le donne di un isolato collegio femminile soccorrono un soldato nordista malamente ferito a una gamba. La presenza dell’uomo accenderà desideri sopiti innescando una serie di gelosie e rivalità dalle conseguenze fatali.
RECENSIONI
Nous sommes des filles.
Nelle lezioni di francese tenute dall'insegnante Edwina Morrow presso il Miss Martha Farnsworth Seminary for Young Ladies manca il pronome maschile. Le allieve imparano a coniugare i verbi cantilenando je, tu, elle. John McBurney, mercenario irlandese arruolatosi nell'esercito nordista - il - scompagina temporaneamente la grammatica delle fanciulle in fiore e delle loro istitutrici. Vacillano schemi comportamentali abitudinari, scricchiolano griglie di pensiero consolidate. John McBurney è l'eccezione che non farà altro che confermare la regola iniziale.
Accantonato il progetto The Little Mermaid, Sofia Coppola non abbandona del tutto il territorio della fiaba crudele: c'è una bimba in un bosco che incontra un presunto "lupo cattivo", incastonata nel bosco c'è una magione abitata da un gruppo di fate/streghe, nella magione c'è una stanza che diventerà più o meno proibita. Le coordinate narrative e spaziotemporali sono quelle già esplorate da Don Siegel nell'omonimo film del 1971 (The Beguiled è il titolo originale di entrambe le opere), a sua volta tratto da un romanzo di Thomas P. Cullinan pubblicato nel 1966, coordinate all'interno delle quali Sofia Coppola proietta il suo mondo: un gineceo che raccoglie quattro età femminili differenti; spazi chiusi e ovattati - come la casa delle sorelle Lisbon, gli hotel di Tokyo, la reggia di Versailles, la Los Angeles acquario e casa di bambola - che sono al tempo stesso prigione e bozzolo, luoghi dove reclusione rima con autodeterminazione; la noia come spazio fantasmatico, laboratorio di rielaborazione delle pulsioni più intime.
Per quanto possa sembrare una pratica oziosa o pedante, in realtà è proprio il confronto con la versione di Siegel a mettere in luce le peculiarità della rilettura della Coppola, racconto della stessa storia "dal punto di vista delle donne" come affermato dalla stessa autrice [1]. La storia del soldato McBurney e del suo sventurato soggiorno presso il collegio femminile gestito con piglio al tempo stesso autoritario e materno da Miss Farnsworth viene sfrondato di ogni eccesso barocco o aggressione sensoriale, di ogni furore visivo espressionista, di tutte le perversioni che affioravano in superficie con tormento quasi bergmaniano nel film del '71. Anche diegeticamente, la Coppola adotta una linearità per sottrazione, prosciugando la caratterizzazione psicologica: nessun flashback a chiarire le motivazioni dell'agire dei personaggi o ad approfondirne le reazioni, nessuno squarcio onirico a sondarne repressioni o desideri nascosti, eliminato in toto il personaggio politico della domestica afroamericana che nel film di Siegel sparigliava le carte della lotta tra i sessi e affondava il coltello nelle contraddizioni della questione razziale (assenza all'origine delle immeritate accuse di whitewashing rivolte alla regista che ha candidamente affermato di non aver voluto inserire tale figura perché legata a istanze che non voleva affrontare in modo superficiale e comunque estranee al suo discorso). Tutto il materiale urticante esplicito nell'opera di Siegel - pedofilia, incesto, razzismo, machismo, misoginia - si dissolve nelle brume che avvolgono e accarezzano l'edificio neoclassico teatro del racconto coppoliano. Al posto della scena dell'amputazione, solamente una chiazza rosso sangue très chic sulla sottoveste della Kidman (ottima, capace con le venature ironiche della sua interpretazione di dar vita a un personaggio ambiguo più sfumato di quello incarnato da Geraldine Page nella versione precedente) e a seguire un netto stacco di montaggio sul seppellimento dell'arto mozzato: voilà la castrazione del maschio, senza troppi affanni.
Il southern gothic originario viene così distillato in un'atmosfera sospesa e rarefatta, complice la fotografia di Philippe Le Sourd che predilige la luce naturale dell'alba e del crepuscolo filtrata dalle fronde degli alberi o dalle tende della casa, il chiarore fioco delle candele nella penombra degli interni, una palette di colori tenui e velati. La Storia, nonostante l'accurata ricostruzione d'epoca, è estromessa dal convitto femminile, faccenda di maschi assenti: la Guerra Civile è tela di fondo astratta, fuori dallo sguardo, sbirciata da lontano con un cannocchiale, delegata a percezioni sensoriali (uno squarcio rosso sulla pelle, colonne di fumo nero che striano il cielo, la percussione sonora dei cannoni attutita dalla lontananza). Quello del caporale McBurney è allora un corpo letteralmente estraneo inoculato in un sistema autosufficiente che dapprima ospita, poi all'occasione espelle. Distante dalla sensualità minacciosa di un Clint Eastwood in piena virilità e dal suo fare apertamente manipolatorio, il soldato di Colin Farrell è una figura remissiva, conciliante, paradossalmente quasi virginale (i suoi scatti d'ira nei momenti più drastici della segregazione assumeranno, in modalità abbastanza dissonante, grotteschi toni isterici), oggetto sessuale più che soggetto, sex toy inatteso che risveglia la libido femminile in atti sostanzialmente masturbatori (Miss Martha che lava e accarezza il corpo del caporale come se toccasse e riscoprisse il suo, gli amplessi guidati e imposti da Miss Edwina e dalla giovane Alicia come prove di autoaffermazione), ricettacolo di desiderio gettato via quando l'eros comincia a minare l'integrità della comunità di donne, alterandone le pacifiche e consolidate dinamiche di potere.
Più che un film dal punto di vista femminile, L'inganno è allora un film - diretto da una donna in un mondo maschile - sul punto di vista di un microcosmo femminile. Che rimane un mistero inviolabile, apparentemente facile da avvicinare, impossibile da penetrare, arduo da decrittare, anche nelle sue aperture verso l'altro (lo sguardo malinconico, desiderante ma indecifrabile della Dunst). Cifra autoriale squisitamente coppoliana che rischia però qui di trasformarsi nel maggior limite dell'operazione nel momento in cui la regista toglie ed elude al punto tale da sfiorare l'esilità, da depotenziare ogni sussulto disturbante. Il collegio di Miss Martha è il cinema della Coppola che finisce per far quadrato attorno a se stesso, un universo autoriferito, blindato nelle buone maniere e nell'understatement, nelle superfici ottundenti e nei rituali languidi, dove abilità tradizionalmente intese come muliebri - l'ospitalità, la cura dei malati, il ricamo, la cucina - sono pronte a trasformarsi in armi di difesa e vendetta non appena lo status quo viene minacciato. L'immagine finale ne è il suggello, quasi plateale. Se nel film di Don Siegel uno zoom all'indietro allargava il campo sulle donne che, spalancato il cancello della villa, portavano all'esterno il cadavere del caporale, in quello della Coppola il movimento è opposto: l'inquadratura stringe lentamente e frontalmente sul medesimo cancello, stavolta serrato, il corpo dell'uomo al di qua, racchiuso in un sudario, le donne al di là, in posa e immobili nelle loro vesti immacolate sotto le colonne del porticato, debuttanti in una società esclusivamente mentale, vestali di un tempio separato dal mondo e dalla Storia, ancelle di un racconto che è soltanto loro. Il pronome maschile è stato espunto.
Elles sont des filles.