Commedia, Netflix, Recensione

L’INCREDIBILE STORIA DELL’ISOLA DELLE ROSE

TRAMA

Bologna, 1968. L’ingegnere Giorgio Rosa decide di costruire una piattaforma marittima al largo delle coste di Rimini, fuori dalle acque territoriali italiane, e la dichiara nazione, con tanto di lingua ufficiale (l’esperanto), moneta e francobollo. All’opinione favorevole dell’ONU si contrappone la reazione ostile del governo italiano.

RECENSIONI

Ci sono storie talmente belle che finiscono per mangiarsi i film che le raccontano. È quanto accade con la nuova regia di Sydney Sibilia che dopo il successo della trilogia Smetto quando voglio continua a pensare in grande e mette il suo stile - pop, colorato e dalle ambizioni internazionali - a servizio di un racconto da pochi conosciuto che ha dell’incredibile: il 1° maggio 1968 l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa autoproclamò la piattaforma artificiale, costruita al largo della spiaggia di Rimini, come Stato indipendente. Il film ripercorre le tappe della vicenda, partendo, come nella più classica delle strutture narrative, dalla fine, quando il protagonista si reca al Consiglio d’Europa a Strasburgo per sostenere la propria causa e ottenere legittimazione. Da lì si procede a ritroso per capire come si è giunti a quel punto. Il film gode di un budget sostanzioso (intorno agli 8 milioni di euro), ha interpreti divertiti e volenterosi e cerca un non facile equilibrio tra intrattenimento e realtà storica, attraverso una progressione che si vuole il più possibile ritmata, semplice e fruibile. La leggerezza delle intenzioni sfuma però in superficialità.

Il problema dell’opera è infatti quello di anteporre il contenitore al contenuto, con una semplificazione che appiana, fino quasi a rimuovere, ombre e malinconie finendo per inquinare la credibilità. A risentirne è quindi quella sospensione di incredulità determinante per aderire fino in fondo al racconto, con molti momenti che si accontentano di essere carini: quei tubi in simpatico viaggio per l’Adriatico, quell’acqua potabile che trullallero trullallà si trova sotto alla piattaforma, quei dialoghi che si fermano sempre un attimo prima di fare male, quei protagonisti stralunati e comprensivi privi di profondità, quei politici moderatamente divertenti e inclini alla macchietta, quella storiellina d’amore dalle coordinate basiche, quella benevolenza diffusa per cui ogni possibile evento traumatico sfuma in un’alzata di spalle. Diventa quindi un prendere o lasciare, stare al gioco oppure trincerarsi in una critica che sa di snobismo intellettuale. Provando a stare nel mezzo, bisogna riconoscere che il film è godibile, originale e lontano da ideologie spesso stereotipate (quando mai si è visto un ’68 senza scontri di piazza e manifestazioni?). Ciò che manca è quel guizzo con cui ammantare il sopra le righe e la carineria di personalità. Pare quindi adatto a un consumo in linea con la fretta dei tempi, in cui tutto scorre veloce per poi essere altrettanto rapidamente dimenticato. Ne è un chiaro segnale il fatto che a restare in mente non sia tanto il film, quanto la storia raccontata.