Drammatico, Recensione

LETTERE DAL SAHARA

TRAMA

Il viaggio della speranza di un giovane migrante senegalese, dalla Sicilia a Torino. E ritorno…

RECENSIONI

Presentato al recente Festival di Venezia come evento speciale fuori concorso, il nuovo film di Vittorio De Seta segna un ritorno atteso, a 13 anni di distanza dall’ultimo lungometraggio dell’autore di Banditi ad Orgosolo, In Calabria. Quasi a voler colmare un pesante “vuoto di rappresentazione”, il regista lancia uno sguardo necessario, forse tardivo, su una realtà sistematicamente ignorata dai media italiani. Lettere dal Sahara narra, nella forma della docu-fiction tipicamente desetiana, delle vicissitudini di un migrante senegalese, Assane, dall’arrivo a Lampedusa all’approdo momentaneo a Torino, concludendo l’itinerario con un sintomatico viaggio di ritorno in patria. Il regista vuole principalmente render conto dello smarrimento iniziale e finale del protagonista, della sua condizione di “sradicato” in terra straniera ed in patria, del suo tentativo di ripristinare un canale di comunicazione con gli uomini e le donne della sua terra. Con uno stile inizialmente piano e privo di enfasi, sobrio e trattenuto, l’autore riesce, nella prima ora, a fornire un quadro dettagliato, preciso, partecipe e sincero di questo viaggio della speranza. I silenzi come conseguenza di un’incomunicabilità che va oltre le barriere linguistiche, le fughe notturne, l’insofferenza, le frustrazioni ed il bisogno di radicalizzare, ribadendone con forza i precetti, la propria posizione culturale, etica, religiosa (tutto l’episodio fiorentino con la cugina modella ruota intorno a questo), sono descritti, suggeriti, narrati con efficacia. Spiace che il regista ed i suoi sceneggiatori non siano riusciti a rendere ugualmente credibile il momento fondamentale dell’“incontro” con i rappresentanti della cultura “altra” dalla propria, che l’attimo fatidico del “mutuo riconoscimento” sia palesemente artefatto, viziato da un paternalismo di fondo d’impronta cattolica (il migrante non può farcela da solo, chi lo accoglie è pronto ad indirizzarlo sulla retta via, che altrimenti non sarebbe in grado di imboccare). Nulla di male, se solo i rappresentanti di quel mondo (l’associazionismo cattolico) non fossero tratteggiati con le stesse sfumature e ambiguità che possono essere presenti in un’agiografia di Padre Pio da supermercato dei santi. Se è da dimenticare la pedante e didascalica tappa torinese, tutt’altro che disprezzabile risulta il segmento conclusivo, quello del ritorno, del riavvicinamento al luogo natio. In conclusione, è come se il regista non fosse stato in grado di affrontare di petto, senza patetismi o pietismi, la questione più delicata, più attuale, ovvero il nostro modo di porci di fronte all’altro, di riconoscerlo, di rispettarlo, di capirlo, senza inondarlo di parole imparate a memoria in un manuale del buon credente.