Drammatico, Recensione

L’ESTATE DI GIACOMO

NazioneItalia/Francia/Belgio
Anno Produzione2011
Durata78'
Montaggio

TRAMA

Giacomo, adolescente sordo. Stefania. E il Friuli, lungo il Tagliamento.

RECENSIONI

Una batteria, un adolescente che colpisce con foga piatti e tamburi. Vediamo la sua nuca, scorgiamo sull’orecchio sinistro un apparecchio acustico. Prima dei titoli di testa, in quelle immagini e in quei rumori che introducono con un'aggressione lo spettatore all’interno dell’opera, c’è già la misura di L’estate di Giacomo, miracolo, in primis, di giusta distanza. Comodin non ha boria, non chiede al cinema di imitare l’esplosione dei sensi del suo protagonista: quell’inizio ci chiama a una partecipazione fisica immediata ma non mimetica, si fa sentire con vigore, ci sorprende. Ed è probabilmente con una potenza simile che Giacomo, per via di quel marchingegno protesico, vive la sorpresa di sentire, di ascoltare, di ascoltarsi parlare. Non c’è la pretesa ridicola di semplificare, qui, di riformulare, di scimmiottare ciò che si pone di fronte allo sguardo. Ma c’è l’invito, semplice e umanista, a una prossimità. Per questo non ci sono premesse in L’estate di Giacomo, solo presenza concreta e conseguente mistero. È cinema dell’ipotesi, questo. Che ci ricorda come, al tempo dell'immagine svelta, sciattamente sempre pronta a registrare, sempre confusa tra omologhe nel caos della Rete, e' il cinema che insiste che oggi ci infiamma, quello che s'ostina ad approfondire il reale, un cinema che fa risuonare amplifica e confuta il vero, che manifesta un unico punto di vista e non si finge plurale, ma rispetta la misura, tragica, complessa, banale del mondo. E' un documentario obliquo, questo, che non si nega alla finzione perché conscio della dimensione reale della vita, della quotidianità continua della messa in scena, del gioco sociale, della seduzione.

Giacomo sprofonda nella natura intorno al Tagliamento, in minuti che omaggiano la prima parte di Blissfully Yours di Weerasethakul, esempio e manifesto di un cinema erotico e terragno, capace di dire dell'uomo e del territorio, di perdersi tra le storie che su di questo fioriscono, germogliano. Con Stefania, sorella del regista, Giacomo coreografa un ballo sensuale, tra l'istinto e la posa, tra l'ingenuità e la malizia, tra lo sfiorarsi dei corpi nel fiume e la vera e propria danza, tra il dolore e la cura, vagliando una possibilità d'amore, un forse, un bisogno bassoventrale. Leggendo nello scomposto frammentarsi dei fuochi d'artificio il disegno di un cuore, giocando con la sabbia e accarezzando la pelle, forzando le regole chimiche della prossemica, sublimando nell'oscenità incontrollata del linguaggio la repressione di un desiderio. Si perdono e non dicono, i due, in dialoghi rohmeriani che trattengono e pongono in luce per negazione, involgariti e intimiditi dalla provincia, eccitati dallo scorrere lussurioso dell'acqua, languidi nella fertilità della natura. In questa esplosione dei sensi, lo spettatore vede in Giacomo un che di aumentato, che sconcerta per intensità, smuove, avvicina: le sue urla gioiose e irritanti, come di bambino innocente che cerca attenzione, sono espressione  teneramente  grottesca di un sentimento comune, dato di realtà che commuove anche nel caso fosse finzione. E la difficoltà del suo eloquio, il fatto che chi ascolta non si possa limitare ad ascoltare, ma debba spingersi a comprendere, è già, per chi guarda, movimento. L'ennesimo, di un cinema che avvolge e chiama a sé lo spettatore, lo immerge in una realtà altra tramite la durata, in pianosequenza che assorbono l'intorno, accumulano dettagli, ingannano la deissi e sussurrano «sei qui, di fronte a Giacomo, a Stefania, sulla riva di un fiume» per poi sviare, in un verseggiare associativo ed ellittico che riscopre il piacere creativo del cinema insieme alle fughe della vita. Fino alla fine che e' un altro inizio, un'altra estate, forse, di certo un'altra storia, un'altra ipotesi d'amore.

(Intervista al regista)