TRAMA
Un gruppo di giovani boheme parigini durante i movimenti del 1968/1969. Tra loro François e Lille.
RECENSIONI
1968: i giovani divisi tra anarchia e lotta organizzata, i giovani e lamore libero, i giovani risucchiati dalla tentazione artistica, i giovani e la poesia, i giovani e la droga, i giovani borghesi e i giovani proletari tra i fulgori dellinamarezza (inamertume, neologismo inventato dallo stesso Garrel e che va a designare uno stato danimo opposto allamarezza). E una descrizione disincantata e fascinosa quella che il regista dà del periodo della contestazione, fatta di episodi minimi, dialoghi ingenui, affermazioni di principio, squarci di quotidianità, piani, complotti, utopie, in cui si restituisce latmosfera di quel tempo, non essendo estranea a questa descrizione una certa tentazione mitologica ma rigorosamente tenuta a bada, il regista non paventando mai lurgenza di narrare storie rimanendo più attento a sondare stati danimo e ambienti. Siamo lontani da THE DREAMERS, in cui il 68 era semplice sfondo chiamato in causa alloccorrenza, anche se a Bertolucci è inevitabile pensare stante lesplicita citazione del presagio in celluloide PRIMA DELLA RIVOLUZIONE e la presenza di Louis Garrel che anche qui, come in THE DREAMERS, figura da protagonista su consiglio dello stesso regista emiliano (dal set del film di Bertolucci provengono anche alcuni arredi e costumi, scelta dettata dal risicatissimo budget: un milione e mezzo di euro).
Il risultato è una cronaca intima e pubblica, un film generazionale nel senso più squisito dellespressione, in cui, alla vecchia maniera, Garrel non rinuncia al bianco e nero (la fotografia è di William Lubtchansky), a lunghe inquadrature fisse che scrutano questi ragazzi in rivolta, gioventù anarchica sì ma che non rinuncia mai a guardarsi narcisisticamente allo specchio. In cui lamore regolare ma fou di François e Lille è salvifico e mortifero a un tempo. LES AMANTS REGULIERS è una pellicola sorprendentemente fuori dai tempi (Garrel cita nella prima sequenza LA MAMAN ET LA PUTAIN di Jean Eustache, dichiarazione dappartenenza a un certo cinema), divisa in quattro capitoli (struttura che rende lampante lascendenza letteraria dellopera e il riferimento ai ribelli stendhaliani), che si pregia di alcune sequenze memorabili (la prima scena degli scontri, la formidabile ripresa del ballo sulle note di This Time Tomorrow), un bizzarro detour storico (1789, ovviamente) e che con ammirevole precisione, prescindendo dal discorso ideologico, ci restituisce, senza traccia di nostalgia, limmagine pudica e tenera, e per questo inedita, di un periodo, della sua umanità in subbuglio, del suo sogno concreto.
Non ho intenzione di parlare dei rapporti di filiazione/superamento tra Les amants réguliers e The Dreamers, né di tessere le lodi del bianco e nero amoroso di William Lubtchansky e né, tantomeno, di soffermarmi sullo scandaglio sentimentale operato da Garrel sul 68 parigino con levità gloriosamente malinconica. Su questo ha già detto tutto (e assai bene) Luca Pacilio.
Mi preme invece porre laccento su un aspetto che forse non spicca per appariscenza ma che, ai miei occhi, risulta di una centralità addirittura strutturante: la temporalità per così dire totale delle inquadrature garreliane, il superamento del rapporto tra durata effettiva e tempo di lettura in favore dellistante cinematografico puro, del segno filmico immanente. Detto più chiaramente, Garrel sembra aver trovato la durata assoluta, quella in cui i fotogrammi catturano/sprigionano la malinconia del tempo che passa. Il cineasta francese non impiega il tempo per impacchettare gli eventi rappresentati, ma, al contrario, lascia che questi si depositino nel tessuto cronologico dellinquadratura secondo una durata squisitamente cinematografica, armonizzando il loro svolgimento con lo scorrimento dei fotogrammi e accordando il loro sviluppo al dipanarsi della temporalità filmica. Improprio dunque affrontare il cinema di Garrel in termini di scansione cronologica e funzionalità narrativa: il suo cinema è sempre in tempo.
In questo senso les amants réguliers non sono, banalmente, François e Lille (niente di più irregolare, di più squilibrato della loro relazione), ma, esteticamente, il Cinema e il Tempo: la regolarità del loro amore risalta in modo ancora più struggente se confrontata alle disarmonie, ai dislivelli, alle imperfezioni del rapporto sentimentale messo in scena. Sempre in questo senso risulta splendidamente paradossale lessere bressoniano peraltro conclamato di Garrel. Se Bresson annullava l'autonomia dell'inquadratura, trasformandola in semi-immagine, Garrel fa esattamente il contrario: la potenzia, la emancipa, facendone un'unità a sé stante. Se le sequenze bressoniane sono dunque inseparabili dal contesto, quelle di Garrel sono letteralmente indipendenti, autosufficienti. Vivono di vita propria. È il corso del tempo a costituirne levento principale, gli attori sono luoghi del suo passaggio, corpi che recano in sé la contraddizione fondante tra esistenza e dissolvimento.
Formalmente, il cinema di Garrel lotta contro la sparizione degli esseri, al tempo stesso registrandola senza posa. Per lui filmare è questo atto paradossale: fissare una perdita. Secondo chi scrive, Philippe Garrel è, insieme a Otar Ioseliani, il più grande cineasta del mondo: ogni suo film merita sempre il massimo dei voti. In fede mia, ecco fatto.