TRAMA
Leila, una donna di quarant’anni, trascorre la sua vita a prendersi cura dei genitori e dei suoi quattro fratelli. Un giorno, escogita un piano che potrebbe aiutare la sua famiglia a uscire dalla miseria in cui vive.
RECENSIONI
Leila e i suoi fratelli; e poi, le ambizioni del padre e il futuro dei figli, la determinazione di Leila e la codardia di Alireza, il bisogno di denaro e gli affetti familiari, la povertà effettiva e la ricchezza da inseguire e ostentare, l'Iran e gli Stati Uniti, la donna come perno e una società profondamente patriarcale. L'ultimo, straordinario, film di Saeed Roustaee è un conflitto continuo, un perenne inseguirsi di forze opposte che si scontrano - tra i personaggi e dentro i personaggi - in un dramma familiare che, ancora, ha il peso della tragedia e la forma del quotidiano. Come il precedente e bellissimo Just 6.5, anche Leila's Brothers - questo il titolo internazionale, che pare rimandare, beffardamente, ad una grossa multinazionale o società statunitense; opposti, ancora - è un film che fa politica attraverso i sentimenti, posa lo sguardo sul particolare (lì un carcere, qui le quattro mura domestiche) per sferrare attacchi frontali e puntualissimi all'universale (lì la questione della tossicodipendenza e del sistema carcerario, qui la disuguaglianza economica, la società patriarcale) criticando la condizione socio-culturale dell'Iran contemporaneo con rara lucidità. In questa Theran dunque, che è contemporaneamente in campo e fuori campo, ambiente e personaggio, sfondo e protagonista, il presente è un mondo terribile e immobile governato dal denaro e perfino un tweet di Donald Trump può contribuire a sancire la disfatta di una famiglia dall'altra parte del mondo.
Bastano poche immagini ad allargare lo sguardo: un ascensore di un quartiere povero e quello di un palazzo ricco e moderno per esempio, su cui Roustaee insiste, si ferma, mettendo in pausa per qualche secondo la narrazione, facendo emergere al meglio il peso specifico dell'evidente metafora (l'ascensore come rapida - e per questo illusoria - possibilità di ascesa sociale) e sprigionando senso e politica attraverso il montaggio; oppure nello sguardo umiliato e disperato del padre al termine del matrimonio (tra le sequenze più belle dell'anno), rito mondano in cui la misura di un uomo viene valutata soltanto attraverso la sua disponibilità economica, poco importa se la sua ambizione e il suo egoismo stanno condannando i figli alla povertà.
Di immagini e sguardi dunque, non di parole. Perché nonostante quello del regista iraniano sia un cinema costellato di dialoghi, non è nella parola che risiede il senso ultimo delle cose e la sua ragion d'essere, bensì, per l'appunto, nelle immagini, negli sguardi, nella direzione degli attori (di rara bravura) e nella definizione degli spazi. Un cinema parlato eppure non verboso, vivo e feroce come non mai, libero da qualsiasi sovrastruttura intellettuale (e anche per questo molto distante da Farhadi), e capace invece di sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d'onda dei personaggi, costruendo una narrazione serratissima attraverso immagini dalla chiarezza cristallina, che esistono per veicolare la stessa umiltà, la stessa frustrazione, la stessa disperazione dei membri della famiglia Jourablou. Non è l'ennesimo prodotto asettico figlio di un'industria culturale sempre più votata all'anonimato stilistico della serialità televisiva: è il film di un regista maiuscolo, la cui autorialità consiste proprio nell'interrogarsi costantemente sul peso delle immagini e sulla sua posizione rispetto al racconto, ora emergendo e commentando la vicenda con soluzioni incisive (i campi lunghi, il montaggio di cui sopra), ora nascondendosi in piena vista dietro alla storia e ai personaggi, per dare loro quella statura, quella complessità morale che non sempre appartiene al cinema, più spesso appartiene alla vita.