
TRAMA
Maine.U.S.A. anni ’40. In un orfanotrofio vive il piccolo Homer Welles, allevato dal dr. Larch, originale medico e ginecologo abortista, che gli trasfonde tutto il suo sapere medico, impartendogli un’educazione assai poco convenzionale, ma soffocandolo nel contempo, non lasciandogli libere scelte. Il ragazzo uscira’ dall’orfanotrofio seguendo una giovane coppia recatasi li’ per un aborto. Inizia cosi’ la sua nuova vita come raccoglitore di mele, scoprendo il mondo esterno, con tutte le sue problematiche, fino alla consapevolezza del dover prendere in mano le redini della propria vita, impresa non certo facile…..
RECENSIONI
A differenza delle due precedenti opere di Irving ecco un romanzo che sembra nato per diventare film. Nel modo più accattivante possibile per un certo tipo di pubblico. Si segue infatti la vita di un uomo a partire dalla sua nascita, da bambino abbandonato, fino alla maturità di adulto. Con le scoperte obbligate, i ripensamenti e le disillusioni: un'educazione sentimentale ma non solo quindi, un'iniziazione globale alla vita, il modo migliore per coinvolgere uno spettatore. E il film (come pure il romanzo: la sceneggiatura è opera dello stesso Irving) procede nel racconto con spirito in buona parte dickensiano. Soprattutto nella prima parte, quella ambientata nell'orfanotrofio, la più tradizionale (e già vista, se vogliamo), ma anche la più riuscita e commovente. Immancabili i bambini un po' buffi un po' teneri, il desiderio di una famiglia e la sofferenza per il rifiuto, il medico-padre e le infermiere-madri (tutti molto buoni e simpatici). Immancabile anche il solito bambino malato senza speranza che fa tenerezza (e qui siamo più dalle parti di Jane Eyre). Un quadro comunque godibile, specie per alcune trovate come la particolare buonanotte con cui il medico saluta ogni sera i suoi bambini. Arriva poi la separazione, la partenza del protagonista che sembra scoprire tutta la vita in un campo di mele, nella casa del sidro. Tutto gli passa davanti un po' per caso, dall'amicizia all' amore. E al tema dominante dell'aborto si aggiunge, un po' forzatamente, quello dell'incesto e dell'abuso sessuale. Ecco allora la morale che il film tiene ad affermare: le regole non possono venirci imposte dall'esterno, e meno che mai da persone estranee alla situazione; è sempre necessario rendersi utili in qualche modo; le nostre regole e certezze vengono facilmente messe in discussione dalle vicissitudini della vita, "a volte bisogna violare le regole per rimettere le cose a posto". E così il giovane Homer rivede la sua decisa opposizione all'aborto ed arriva alla consapevolezza di dover prendere decisioni in prima persona per diventare il protagonista della propria vita. E questo non lo porta ad altro che a riconoscere come suo il destino che il medico-padre aveva individuato fin dall'inizio per lui. Il problema è che ogni aspetto viene trattato con una certa superficialità, non si approfondisce né il tema del tradimento dell'amicizia né la storia d'amore stessa, né i temi più forti. La stessa personalità del protagonista sembra realmente quella di un tipico personaggio di Dickens: un buono generico, un ingenuo, semplificato e privo di sfaccettature (un Copperfield, un Twist). Il risultato è che anche le emozioni dello spettatore rimangono piuttosto in superficie. I bei paesaggi, la fotografia e la regia di qualità certamente sono apprezzabili, ma rimane un po' poco per un film che fonda programmaticamente la sua forza sui sentimenti e la psicologia dei personaggi. Tobey Maguire ha il merito di rappresentare bene il ragazzo comune, ma la sua espressione da bonaccione risulta la stessa per quasi tutto il film; la bellissima Charlize Theron deve ancora dimostrare talento da attrice ma sembra avere buone possibilità di affermarsi come star. La vera indiscutibile prova di bravura è quella offerta da Michael Caine.
Si può uscire dalla visione con un sorriso se si era in cerca di buoni sentimenti, ma difficilmente si potrà dire qualcosa di più di "carino, grazioso".

Piaccia o non piaccia, il cinema di Lasse Hallström è fortemente caratterizzato e personale: spesso in forma di favola, è spesso votato a cogliere il lato positivo dei drammi che racconta, nel segno commovente e sentimentale della speranza, concentrandosi sui legami familiari di personaggi emarginati. A volte si riduce ad una compagine di ingredienti eterei, a seconda dei soggetti (e delle sceneggiature) di base: si esprime al meglio, invece, quando i racconti contengono risvolti anche tragici, con protagonisti non del tutto probi oppure così eccentrici da esulare dalla normalità e dalle convenzioni. Un altro regista, al suo posto, calcherebbe la tragedia, il pathos pessimista, l’oscurità o l’eccentricità fine a se stessa. Hallström invece, rifuggendo il lacrimevole (che, purtroppo, ripesca attraverso i commenti sonori), preferisce assumere uno sguardo anomalo, riuscito o meno che sia. La sceneggiatura premiata con l’Oscar di John Irving (Il Mondo Secondo Garp), tratta dal suo romanzo (1986), per quanto epurata degli aspetti più crudi (medici, sessuali) è talmente generosa di risvolti inconsueti da favorire la potenza evocativa del linguaggio cinematografico a prescindere dalla mancanza di sottolineature delle disgrazie (orfani dickensiani abbandonati, minorenni incinta che muoiono per pratiche d’aborto dilettantesche, bambini uccisi dalla bronchite perché figli di alcolizzate, militari che restano paralizzati, incesti): Hallström, come nel precedente Buon Compleanno Mr. Grape, non edulcora (il testo pare un pamphlet pro-aborto) ma guarda oltre, accanto, avanti. Un Grandi Speranze coinvolgente, ricco di passione e vita. Oscar, anche, ad un superlativo Michael Caine.
