TRAMA
Inghilterra, 1884. Alla vigilia di una spedizione in Sudan, un implume ufficiale lascia il reggimento: bollato come codardo, decide di emendarsi…
RECENSIONI
Non è difficile capire le ragioni che hanno spinto Shekhar Kapur a firmare la regia di questo ennesimo adattamento (il sesto) del lavoro di A. E. W. Mason: una cornice (in potenza) scintillante e sanguinolenta, un giovane eroe incerto fra il dovere e l’amore, quasi una versione vittoriana e militaresca di Elizabeth (la Regina Vergine torna, come maschera carnevalesca, nella scena del porto). Quello che non si riesce a spiegare è come sia stato possibile mortificare la secchezza barocca e carnale del film precedente in un simile, putrido omogeneizzato tardo-hollywoodiano. Anche volendo tralasciare il guazzabuglio di valori paternalistici spacciati per alto contenuto (le mire imperiali e la solidarietà di corpo come ideali supremi e inconfutabili), il film rimane un (maldestro) tentativo di ritrovare lo spirito del fumettone classico tramite continue manipolazioni spaziali (i repentini passaggi Inghilterra – Africa e viceversa) e temporali (notevoli ellissi narrative, immagini velocizzate o, molto, molto più spesso, rallentate) e persistenti iniezioni di vitalità (montaggio frenetico, musiche ininterrotte, macchina da presa galoppante). Il risultato è un minestrone decisamente allungato, indeciso fra la miniserie BBC (gli ormai insopportabili prati verde scuro, i salottini immacolati, la chiesetta di campagna) e il dépliant turistico (il deserto sembra fatto di plastica, e gli attori pure), che sfoggia idee visive graziose ma logore (la danza e la battaglia, uguali nelle coreografie e nelle riprese aeree). L’unica nota interessante (l’ininterrotto fiorire di trompe-l’œil, dall’occhio nero “disegnato” alle autorità che si materializzano da un affresco) viene trascurata per seguire una sceneggiatura contorta e delirante, tesa a rimpinzare una banale odissea “messianica” (il figliol prodigo che toglie i peccati di quelli che l’hanno rinnegato) di tutti i luoghi comuni del caso, dall’africano dal cuore d’oro (ricordo del Robin Hood di Reynolds?) alla finta morte per avvelenamento (più che a Shakespeare il pensiero corre a Il Patto dei Lupi, perla nera, anzi nerissima della scorsa stagione), aprendo infiniti baratri di (buon) senso (un esempio? il protagonista, stremato, si abbandona al deserto, e a due metri di distanza c’è un uomo pronto a salvarlo, dato che il film deve durare un’altra ora abbondante) e disseminando, con impressionante generosità, battute da annali trash (“è Dio che l’ha voluto”… meglio non rivolgere neppure un timido pensiero all’Armata Brancaleone). L’(auto)ironia, la passione, il dubbio, il cinema vanno cercati altrove.