TRAMA
Olivier, un caporeparto di 39 anni, vive per lavorare ma trascura la sua famiglia. La moglie Laura decide così di allontanarsi da lui e dai suoi due figli. Olivier dovrà affrontare la sua nuova vita da padre single e non sarà per niente facile.
RECENSIONI
Una coppia di lavoratori, bambini da allevare, una vita familiare da gestire: le piccole e grandi battaglie quotidiane. Sullo sfondo c’è la feroce new economy e, dunque, la necessità di mantenersi costantemente in equilibrio: solo le favole della buonanotte finiscono sempre bene. Quando la moglie di Oliver sparisce a essere dissestato è un quadro familiare già in bilico, con l’uomo che a casa è un padre che dovrà fare anche da madre e in fabbrica un operaio che svolge anche attività sindacale. È in questo muoversi tra i due ambiti che il film rivela la sua vena felice: preciso nell’analisi del mondo del lavoro, soprattutto perché il discorso sociale non è mai sganciato dallo sguardo alla sfera intima. Così il film approfondisce la personalità di una moglie depressa e fragile e quella di un marito troppo assorbito dai suoi impegni per accorgersene. Le nostre battaglie, insomma, se affronta un tema (quella della precarietà attuale: non ci sono certezze, perché quando il sociale è sguarnito lo diventa anche la sfera familiare e tutto può sfuggirti dalle mani), non si limita a dimostrare una tesi, a fare della storia un esempio, ma piuttosto a raccontarla quella storia, con le sue peculiarità, le sue caratteristiche. Il terremoto nella vita di Olivier e dei suoi figli è rappresentato senza prese di posizione o moralette confezionate, con scrittura fine, centrata su personaggi perfettamente messi a fuoco, rimanendo attaccata al dramma, senza enfatizzarlo mai. E con un metodo peculiare nella gestione della recitazione: il regista delinea i caratteri e dà un’idea dello scenario agli interpreti, ma non concede loro che poche linee di dialogo sulle quali lavorare, invitandoli piuttosto a improvvisare. La camera a mano, dunque, non è un semplice soggiacere ai codici del cinema realista, ma un modo per cogliere l’essenza del gioco attoriale (si guardi la scena di dialogo tra Olivier, un Romain Duris di compenetrazione commovente, e la sorella, una perfetta Lætitia Dosch).
Cinema civile senza essere dimostrativo a tutti i costi e (lo dico) senza quegli artifici drammaturgici, quelle svisate di stile o invenzioni fuori registro, insomma senza nessuno di quegli sterili espedienti che predilige tanto cinema italiano che rimesta negli stessi temi.