
TRAMA
Un uomo in un albergo svizzero. Non parla, fuma, osserva la barista.
RECENSIONI
E' la sigaretta che succhia da anni Titta Di Girolamo, figura avvolta in volute di fumo; osservatore dall'interno di una gabbia di un universo crepuscolare, egli è un uomo invisibile per gli altri e per sé stesso, per mascherare la consegna del non-vivere si rifugia nella fissità iconica e nella paresi facciale. Questo simbolo di immobilità si confronta con le piccole cose (una partita a carte, una donna dietro il bancone) e ricorda che dopotutto la vita non è finita; o forse è finita per davvero, e quello di Titta Di Girolamo è l'ultimo spasmo del cadavere prima del rigor mortis.
Paolo Sorrentino marchia su pellicola uno stile personale e riconoscibile, nonostante il solido tessuto di citazioni (si è parlato di Simenon ma non basta): l'intreccio abbarbicato su un filo non causale ma casuale conduce la vicenda dalle parti di Dürrenmatt, mentre il processo di stemperamento della malavita in chiave ironico/sarcastica riecheggia il cinema dei Coen e addirittura il noir francese. Ma il personaggio di Sorrentino, dall'animo melvilliano (Frank Costello...), vive di vita propria: per lungo tempo non succede nulla, il film è una natura morta da godere semplicemente nelle sue sfaccettature. Il regista produce dinamismo attraverso improvvise geometrie (i quadranti della porta dove si spiano conversazioni altrui, il flusso avvolgente delle scale), maneggia la fisicità in maniera non scontata (vedere gli impercettibili cambiamenti nel volto di Titta), e all'improvviso si concede esplosioni di sentimento senza silenziatore (la memoria del migliore amico). La voce fuori campo accompagna la vicenda, lancia suggestioni imbevute di grottesco (l'insonnia, la droga), restituisce una sincera desolazione spacciandola falsamente per indifferenza: nello squarcio rivelatorio Di Girolamo recita la sua verità (Cosa devo dire? Io sono un commercialista), 'illuminando' su un uomo che non è schivo né timido, ma semplicemente non ha nulla da trasmettere. Il vero noir, dunque, non è un depistaggio sui fatti (il plot è voluto ricalco di un topos), ma sulle sensazioni dell'uomo che si rivelano multiformi, seppure a riposo dietro una maschera imperturbabile.
La linea temporale della storia appare sempre uguale a sé stessa , collocata in un altrove quasi indefinibile, ma in realtà subisce continue variazioni attraverso i dettagli: in questo senso la trovata stilistica non è mai ombelicale né onanista, ma illumina il film da angolazioni sempre nuove (l'inquadratura del protagonista 'rovesciato', come la sua esistenza). Il regista strizza anche l'occhio alla platea, ma la frase ad effetto metafilmica (Ricordarsi di non sottovalutare le conseguenze dell'amore) è talmente sfacciata da strappare un sorriso. Nella parte finale, poi, torna l'archetipo della malavita con l'espediente dell'omissis che verrà svelato in flashback (il ritorno della valigia): una veloce successione di eventi che culmina nell'immagine fissa di Titta, si chiude la storia interiore, si prepara il crepuscolo di una figura e di un genere.
Le conseguenze dell'amore racconta il noir al tempo della paralisi, il tramonto dell'uomo dominato dal Caso. Maiuscola la prova di Toni Servillo, che inchioda al suo sguardo fino alla fine del film ma anche del (suo) mondo.

C'e' una cosa che colpisce subito nell'opera seconda di Paolo Sorrentino (ma che era gia' evidente nel felice debutto "L'uomo in piu'") ed e' il modo sinuoso attraverso cui il giovane regista muove la macchina da presa. E' proprio l'eleganza, la precisione, l'efficacia, in una parola il dinamismo dei movimenti, che rende il lungometraggio un'esperienza coinvolgente e abbastanza atipica nel panorama italiano. All'ampio respiro della pellicola contribuiscono anche il montaggio fluido e mai scontato di Giogio' Franchini e le felici scelte musicali, un insieme di fattori che immerge il film in un'atmosfera pregnante in cui gli interrogativi si moltiplicano, l'occhio gode e la tensione verso i personaggi e il loro destino cresce. Come spesso accade, pero', la inevitabile resa dei conti interrompe la magia e finisce per banalizzare le premesse. La prima parte ha un impatto molto forte: si entra nella quotidianita' di un uomo che sembra sprecare le sue giornate in una grigia routine di ore sempre uguali e sempre vuote. Non succede nulla, eppure ci arriva tutta la sua frustrazione, il dolore per una vita che ha il peso di una presenza e la rabbia per un errore che non ha vie d'uscita se non la rassegnazione. Sorrentino riesce a filmare l'assenza e a dare spessore agli sguardi e ai silenzi dei personaggi. Poi, quando si obbligano dialoghi e fatti a dare corpo alla suggestione, il film ha un cedimento, soprattutto a causa della sceneggiatura, che non riesce a mantenere credibilita' e coerenza. Non mancano dettagli didascalici (la coppia di anziani, gli appunti sul bloc-notes) e qualche luogo comune nella descrizione del mondo mafioso, sempre un po' folcloristico. Imperdonabile, poi, affidare per l'ennesima volta a un incidente la determinante svolta narrativa: un auto corre su un rettilineo, un innaffiatoio automatico bagna i campi e scansiona con il suo ticchettare ritmato la tensione della scena, fino all'inspiegabile uscita di strada. Ecco, anche a livello visivo, e non solo di discutibile stratagemma risolutivo, la sequenza ha l'appeal e la forza di uno spot pubblicitario. Ambiguita' narrative a parte, il film ha un impatto potente, grazie anche allo spessore degli interpreti. Toni Servillo ha grande carisma e dispiace vederlo in un ruolo dove deve per forza contenere la sua contagiosa vitalita'; ma anche nella sottrazione, pur con l'enfasi di certi passaggi, non perde in espressivita'. Olivia Magnani, occhi che bucano lo schermo e presenza di rilievo, regge il confronto nonostante qualche rigidita'. Ma forse e' il suo personaggio ad essere troppo letterario e in difficolta' nel passaggio dal mondo immaginato sulla carta a quello in cui movimenti, parole e gesti perdono la consistenza sottile della pagina scritta.
