Documentario

LE CINQUE VARIAZIONI

Titolo OriginaleDe Fem Benspaend
NazioneDanimarca, Svizzera, Belgio, Francia
Anno Produzione2003
Durata90'

TRAMA

Una sfida all’ultimo frame tra i registi Lars Von Trier e Jørgen Leth.

RECENSIONI

Tutto parte da un piccolo film (L'uomo perfetto di Jørgen Leth, 1967): Lars von Trier sfida il suo regista a farne una serie di remake ma sulla base di condizioni che sarà lui di volta in volta a imporgli. Nascono così le Five Obstructions, le cinque variazioni su tema che portano il povero Leth ad assecondare le sadiche richieste di Von Trier che farà di tutto per rendere impossibile il compito dell'altro. Il film si compone dunque di cinque sezioni divise ciascuna in tre parti: nella prima c'è la conversazione, reale, tra i due registi in cui Von Trier decide gli ostacoli da porre a Leth, nella seconda si dà spazio al lavoro di questi per soddisfare le condizioni impostegli, nella terza si assiste al risultato del lavoro. Così nella prima obstruction, ad esempio, a Leth viene imposto di non usare sequenze più lunghe di 12 frame, di girare a Cuba, di dare risposte alle domande che la sceneggiatura del film lasciava senza seguito.
Se il film è attraente sulla carta (l'idea è formidabile e le conversazioni tra i due registi davvero divertenti) sullo schermo le cose sono leggermente diverse: le fasi di lavorazione sono pedanti, molto più di quasiasi making of. Five Obstructions rimane però opera interessante dicendo moltissimo dell'idea di cinema di LvT, dello stesso movimento Dogma, del concetto di ostacolo: le difficoltà aguzzano l'ingegno, esaltano le capacità (la trovata di Lars dei 12 frame, apparentemente assurda, diventa nelle mani di Leth, come ammette lo stesso Von Trier, "un regalo" e portano a un primo remake di bellezza memorabile), non è un caso che la variazione più difficile si riveli essere quella che impone un rifacimento di The Human Being a schema libero. L'opera dà dunque conto di un patto diabolico tra due registi, due artisti profondamente diversi ma che rivendicano un comune rispetto per le regole da imporre al proprio lavoro, la volontà di fare cinema soprattutto come occasione di ricerca di possibilità, di esplorazione dei limiti del linguaggio filmico (la discussione sulla moralità della ripresa dell'agonia di un bambino in un campo di rifugiati). Anche se i confini tra realtà e fiction sembrano labili, Leth ha tenuto a sottolineare che le conversazioni sono state filmate senza che vi fosse alcunché di preparato: i due non sapevano cosa sarebbe successo e a quali conclusioni avrebbero condotto le loro discussioni. Una sfida anche per i produttori: impossibile preventivare il budget dell'intero film, ciascun remake ha determinato la necessità di una peculiare meditazione produttiva.
Potrà piacere e non piacere, la sua produzione avrà anche esiti discontinui, ma si sente davvero la necessità, in un clima serioso a tutti i costi come quello del cinema d'autore, di un giocherellone come Lars von Trier.

Il limite del linguaggio cinematografico, da sempre chiodo fisso del geniale e antipatico regista danese Lars von Trier, è alla base di questo esperimento visivo, che si presenta come un saggio teorico e si lascia invece gustare come un appassionante lungometraggio. Il punto di partenza è un cortometraggio intitolato L'uomo perfetto, girato in bianco e nero dal regista Jørgen Leth nel 1967. Il sadico gioco imbastito dal duo prevede il rifacimento del corto da parte di Leth seguendo i rigidi criteri imposti da von Trier. Regole ferre a cui sottostare per esprimere lo stesso concetto attraverso un linguaggio in divenire: non più di dodici fotogrammi per inquadratura, tramite i cartoni animati (odiati da entrambi), senza alcuna imposizione, e così via. Si ha più volte la sensazione che ciò che interessa al regista danese sia la spettacolarizzazione del suo potere, un gusto sadico di farsi beffe di chiunque riuscendo comunque ad uscirne geniale e vincitore. Quale che siano le reali intenzioni, il risultato è davvero interessante. La caccia al tesoro visiva, imbastita dalla diabolica coppia, produce infatti, nei cinque cortometraggi che ne derivano, esempi diversi di utilizzo del cinema partendo dal medesimo soggetto. E il film stesso, arricchito dal rapporto personale tra Lars von Trier e Jørgen Leth (vero o inscenato?), pone domande non banali sulla creazione artistica: totale libertà espressiva o regole a cui sottostare per incanalare il talento? Il cinema come pura ricerca formale? Fino a dove ci si può spingere nel comporre un'immagine? Esiste un limite morale oltre cui è impensabile andare? L'occhio di chi guarda cosa ricerca?
A tante domande, nessuna certezza in risposta. Solo stimoli, importanti per instillare il dubbio e approfondire la ricerca e, grazie al cielo, nessuna greve imposizione dello sguardo. A qualcuno potrà sembrare superficialità, inutile esibizione o gratuito cinismo, invece The five obstructions ha il dono prezioso di un insegnamento ironico e pervaso di leggerezza. Quanto di più lontano ci si aspetterebbe da Lars von Trier, e invece ...

Al solito, Von Trier sembra fare di tutto per invitare alla critica feroce, estorcere “condanne” e poi canzonare beffardo - ci siete cascati di nuovo! - (in danese). E’ furbo, intelligente e inattaccabile come sempre. Ma non mi piace. Con The five obstructions inscena probabilmente il suo modus operandi (porsi limiti e costringersi ad aggirarli), coinvolgendo l’amico Jørgen Leth in un bizzarro progetto para-dogmatico (di fatto, un decalogo dimezzato). Il problema è che delle cinque ostruzioni, l’unica foriera di risultati apprezzabili è la prima, quella dei 12 fotogrammi a sequenza, che produce una manciata di minuti gradevoli; diciamo così: se fosse un videoclip vincerebbe un paio di Grammy e qualcuno non esiterebbe a definirlo “geniale”. Il resto del film, però, è davvero grasso che cola, spesso noioso e bruttarello forte... ma si sa, il buon Lars ha le spalle coperte: -era un esperimento coraggioso ed “estemporaneo”, se non è completamente riuscito non potete rompermi troppo i coglioni-. Contento lui. Detto per inciso: l’ultimo episodio, l’unico girato da Von Trier in persona, è decisamente banale, didascalico e autoassolutorio.