TRAMA
Quella di Lazzaro, un contadino che non ha ancora vent’anni ed è talmente buono da sembrare stupido, e Tancredi, giovane come lui, ma viziato dalla sua immaginazione, è la storia di un’amicizia. Un’amicizia che nasce vera, nel bel mezzo di trame segrete e bugie. Un’amicizia che, luminosa e giovane, è la prima, per Lazzaro. E attraverserà intatta il tempo che passa e le conseguenze dirompenti della fine di un Grande Inganno, portando Lazzaro nella città, enorme e vuota, alla ricerca di Tancredi.
RECENSIONI
Il cinema di Alice Rohrwacher è un sistema metamorfico in assetto di ridefinizione, un oggetto che continua ad evolversi proprio per non ricadere in alcuna definizione, per non rimanere incastrato nelle trappole delle aspettative, fra le catene delle etichette. Tre (soli) film per una delle filmografie più interessanti del recente cinema italiano: ad ogni opera – al di là degli inutili semplicismi del mi piace/non mi piace – riconosciamo uno scarto, un tentativo nuovo, una ricerca, uno slancio verso un territorio da esplorare. Corpo celeste è stato l’esordio, imperfetto e promettente, di un’autrice che si dimostra interessata al corpo incerto di un’adolescente e lo fa diventare bussola in un paesaggio di geografia etica liminale. Il conflitto morale sfociava esplicitamente in un confronto con il sacro, ritratto con pennellate di realismo inquieto, indeciso fra il brusco e il poetico. La posta in gioco si alza con Le meraviglie in cui, fra allegoria e autobiografismo, i contrasti etici prendono forme sempre più essenziali: tradizione contro modernità, vita contadina contro miraggi televisivi. Un film talvolta incompreso, ma che tenta di sondare una strada espressiva personale, il superamento di un realismo pedante che qui trascende in maniera sempre più presente nei territori del poetico e del magico. In Lazzaro felice permangono tutti gli elementi chiave del cinema dell’autrice, ma nel loro continuo evolversi finiamo per ritrovarli solidificati, inspessiti, accentuati, restituiti nella loro forma più quintessenziale, talmente evidente da donare al racconto il peso e l’afflato di una parabola, di un testo allegorico da canone apocrifo. E, allo stesso tempo, il film brucia di una incredibile propensione al deragliamento – di temi, stili, voci, interpretazioni – che lo rendono diverso da tutto, inclassificabile, un unicum nel cinema italiano di oggi.
In una notte persa nel tempo e nella campagna, si consuma un rito dal sapore arcaico: una serenata di zampognari sotto la finestra della giovane amata. Ci si presenta così una comunità contadina fuori dalla Storia, che vive ammassata in una manciata di vecchie case diroccate, isolate fra le montagne. Qui coltivano il tabacco, indossano abiti rammendati di stracci antichi e non oltrepassano mai il fiume, perché oltre quello c’è solo un minaccioso ignoto. Sono mezzadri al soldo della Contessa (Nicoletta Braschi, al solito presenza dalla recitazione straniante, qui sottilmente congeniale al tono stralunato della narrazione). Ma sono anche vittime del Grande Inganno: in combutta con i suoi complici, la Contessa non ha infatti mai rivelato loro che la mezzadria è finita e continua così a schiavizzarli, forzandoli ignari in un limbo del tempo. Fra di loro c’è Lazzaro (il volto ebete e incantato di Adriano Tardiolo), figlio di nessuno, tanto buono da sembrare santo, tanto buono da sembrare scemo, doppiamente vittima della Contessa da un lato e dei suoi pari, che di lui s’approfittano, dall’altro. Lazzaro diventa amico di Tancredi, il figlio viziato e ribelle della Contessa, uno che ascolta la musica in cuffia, ha un telefono cellulare e per la prima volta infrange – anche per lo spettatore – l’illusione di essere fuori dalla Storia. La loro è un’amicizia sbilenca, ineguale, solo la forma di un altro sfruttamento. Poi un giorno Lazzaro cade da una rupe e rimane lì, sospeso in un coma magico, nascosto fra la vegetazione e dimenticato da tutti. Si risveglierà chissà quanti anni dopo, quando il Grande Inganno è stato svelato, la Contessa arrestata, i contadini riconsegnati alla Storia. È a questo livello che si snoda una sorprendente riflessione sul tempo, come sospensione e paralisi. Già accennato nelle antitesi de Le meraviglie, diventa qui il nucleo di senso del film. L’elaborazione che ne fa l’autrice è tanto più interessante in quanto libera da schematismi: all’intervallo a-storico della prima parte non segue, con taglio violento, l’instaurazione di una determinazione storica netta. Al contrario, da una sospensione si passa ad un’altra, da un’immobilità senza connotazioni si scivola verso una decontestualizzazione altrettanto opaca, fluttuante. È la forma amorfa di una Storia che non cambia mai per gli ultimi della Terra – buoni o cattivi, cialtroni o santi, buonannulla o innocenti – per quelli che vivono comunque ai margini del Tempo. Lazzaro li ritrova così i suoi pari, sui bordi delle rotaie in una grigia periferia fumosa, ridotti a vivere di stenti, ad ingannare il prossimo per andare avanti. Lui è ancora giovane, con la stessa età e aspetto di un tempo. Gli altri sono invecchiati, a ritmo ineguale – chi di più, chi di meno – seguendo uno sconosciuto e imprevedibile segno del tempo interiore. Quando Lazzaro ritrova anche l’incorreggibile Tancredi – caduto in disgrazia, invecchiato più degli altri – non riesce a riconoscerne l’animo corrotto, il tradimento di un’amicizia che forse non c’è mai stata. La bontà di Lazzaro lo rende cieco e pronto per un ultimo grande sacrificio. La bontà renderà anche santi, ma sulla Terra non paga mai.
Una parabola morale che non fa la morale, ecco cos’è Lazzaro Felice. Attraverso il corpo magico di Lazzaro, Rohrwacher passa in rassegna il suo cinema e quello degli altri. Olmi, Taviani, Pasolini, Citti e forse tanti altri, mai semplicemente citati o sterilmente riproposti, ma introiettati al punto da oltrepassare il confine della riverenza. È un cinema che parla di cinema, talmente libero e personale che finisce per essere il “suo” cinema e nient’altro. Quello che ribadisce con orgoglio è una distanza siderale con (tutto?) il cinema italiano di oggi: nulla a che fare con i pionieri della nouvelle vague neo-neorealista, né con gli stilemi del cinema borghese, tanto meno niente da spartire con il cosiddetto “cinema femminile”. L’unicità dell’opera risiede nel suo manifesto menefreghismo verso i codici del buon cinema d’autore, del gesto allegorico riconosciuto, le aspettative di una critica che vuole riconoscere i modelli e di un pubblico che vuole pronta la spiegazione. Alice Rohrwacher fa il film che vuole fare senza preoccuparsi di nient’altro e il susseguirsi di stramberie e incoerenze, false partenze e detour non richiesti, colgono unicamente la sincerità di un’autrice libera, il cui scopo è di essere fedele alla propria visione e urgenza espressiva. Di questo brilla Lazzaro felice, un film-scatola aperta, problematico e multiforme. Un passo avanti per il cinema di Alice Rohrwacher, un’opera con cui il cinema italiano dovrà fare i conti.