Drammatico, Sportivo

L’ARTE DI VINCERE

Titolo OriginaleMoneyball
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2011
Durata133'
Tratto dada Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game di Michael Lewis
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Il general manager della squadra di baseball degli Oakland Athletics, Billy Beane, è costretto a far fronte alla situazione critica in cui versa il team dopo che i giocatori migliori se ne sono andati attirati da contratti più vantaggiosi. Durante un incontro con i Cleveland Indians, conosce Peter Brand, un giovane laureato in economia a Yale che ha idee innovative su come valutare la qualità dei giocatori. Nonostante le opposizioni, le teorie di Peter, appoggiate da Billy, portano a risultati insperati rivoluzionando le vite di tutti.

RECENSIONI

Peter - It's a metaphor.
Billy - I know it's a metaphor.

Saccheggiata nel suo cuore pulsante, dopo una stagione che l'ha vista rivelazione del campionato, la squadra di Billy Bean, l'Oakland Athlethics, perse le sue stelle, deve essere allestita ex novo e con un budget limitato. L'incontro di Billy con l'economista Peter Brand è cruciale: basandosi su un metodo puramente statistico (la cosiddetta sabermetrica), il giovane convince il general manager che le logiche del mercato dei giocatori non sono necessariamente basate sulla meritocrazia, ma anche su fattori apparentemente trascurabili e fuorvianti e che una campagna acquisti fatta in economia può essere comunque proficua: il fattore OPS (on-base plus slugging), che attesta la percentuale di conquista di una base senza penalità, viene infatti sottovalutato dagli altri osservatori e ritenuto decisivo da Brand.
La scena della riunione per decidere i rimpiazzi chiarifica subito l'impostazione che il regista intende dare al film e, in qualche modo, ne arreca la significativa impronta, avendo le discussioni al tavolo sugli acquisti da fare, gli innesti da decretare e i ruoli da affidare ai giocatori, tra incroci di dialettiche più o meno raffinate e rimpalli argomentativi tra i partecipanti, un carattere fortemente realistico: senza ricorrere a semplificazioni retoriche, rimangono sempre chiare le questioni sul piatto e perfettamente leggibili le dinamiche dell'ambiente rappresentato.

La figura di Billy, promessa bruciata sul campo da infauste scelte dirigenziali (i rapidi flashback spiegano indirettamente il peculiare modo di incarnare il suo attuale ruolo) e risorta dalle sue ceneri come manager, si muove su un doppio livello: accanto al percorso di dirigente sportivo e di stratega scorre, infatti, la sua storia personale di uomo e di padre. Così, con una mossa indovinata che rimarca ancora la scelta di Miller di glissare usurate stazioni retoriche, il giro per allestire la squadra, che include una serie di appuntamenti e di conseguenti contrattazioni con i giocatori da ingaggiare, si chiude con l'incontro con la ex moglie (Robin Wright), incardinato ai precedenti senza soluzione di continuità: in un unico passaggio, che vuole giocare sull'equivoco, il film ci dice in che modo il protagonista viva la sua vita privata (in stretta connessione con quella professionale) e per quale motivo il suo matrimonio sia fallito.

Come The social network lasciava il world wide web sullo sfondo, ponendo in primo piano la lotta senza quartiere per l'affermazione dell'idea sociale internettara, allo stesso modo Moneyball si afferma come film di ambientazione sportiva che mostra dello sport lo stretto necessario, poggiando tutto l'impianto e concentrandosi l'attenzione sull'aspetto strategico, sulla pianificazione della fase agonistica, sulla costruzione del gioco più che sulla sua pratica: la squadra disputa dunque i suoi match, ma l'attenzione del film si focalizza sul come Billy/Pitt, fuori dallo stadio, fuori dal baseball game, costruisce il risultato e ne vive l'attesa. A manovrare lo script ritroviamo, del resto, Aaron Sorkin (con la benedizione del produttore Scott Rudin), subentrato al precedente Steve Zaillian che, pur mantenendo la firma sui titoli, come ha di recente affermato un piccato Sorkin, del presente adattamento non ha scritto neanche una riga: ancora alle prese con una storia che ha implicazioni significative a più livelli (il baseball, gioco americano per eccellenza, come specchio di una nazione in bilico tra tradizioni e mutamenti e di una industria spettacolare in cui la fama svolge un ruolo decisivo in quanto pezzo irrinunciabile della propria catena alimentare), ancora ispirandosi a una non-fiction novel (Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game di Michael Lewis, di cui il titolo italiano è una poco coraggiosa, perché incompleta, citazione), ancora una volta cogliendo l'aspetto più letterario e avvincente della vicenda, Sorkin costruisce una sceneggiatura scintillante, che funziona sia nel disegno generale, solido e privo di inciampi (se si eccettua un finale dilatato in eccesso), che in una dialogistica 'action', serratissima, intelligente e giocata spesso e felicemente sui toni della commedia.

Bennett Miller, regista al secondo lungometraggio, dopo il sopravvalutato Capote, trova una misura ammirevole, rimane attaccato allo script secondo il registro hollywoodiano più classico, prediligendo, d'altra parte, una matrice visiva minimal, non enfatizzando nulla, non perdendosi in effetti, abolendo qualsiasi visione romantica del gioco e non cadendo mai nel tranello del trionfalismo tipico dei film del genere, scelte sottintese nel tratteggio della figura del protagonista, un rivoluzionario che non vince nulla, ma impone un'idea (la squadra come complesso, mai ripiegato su individualità specifiche) e un new way of thinking su un ambiente ostile - dentro e fuori dalla squadra, nella società e tra i tifosi - e che,  mettendo in crisi il sistema, afferma la necessità di un nuovo sguardo sulla gestione di uno sport: non è dunque dalla vittoria e dal successo propriamente detti, ma da questo sforzo avventato, da questo tentativo di ribaltare le logiche dominanti dell'ambiente ritratto, che il film attinge la sua epica. Il regista, in ragione di ciò, sfodera un'asciutta regia di sostanza che governa sapientemente ogni elemento, servito da un cast in stato di grazia, con il miglior Brad Pitt di sempre, straordinariamente in parte, un Jonah Hill di sublime nerdaggine e un Seymour Hoffman solo apparentemente relegato in una parte secondaria, e che gioca il suo ruolo di cesello, facendo leva su espressioni rubate che sembrano offerte casualmente alla macchina da presa.
Da vedersi ineludibilmente in originale.