Commedia, Grottesco

L’AMICO DI FAMIGLIA

TRAMA

tto “Cuore d’oro”, Geremia de Geremeis fa due mestieri: il sarto e l’usuraio. Vive in una topaia con la madre inchiodata al letto e non ha amici, solo clienti o collaboratori. La sua sordida routine sarà scombussolata dall’incontro con Rosalba, fresca Miss Agro Pontino, e dall’allettante richiesta di un maxiprestito di un milione e duecentomila euro fatta dal “re del bidet”.

RECENSIONI

Non siamo tra quelli che si sono spellati le mani per L’uomo in più o per Le conseguenze dell’amore. Fuori luogo sarebbero dunque i toni affranti o vagamente risentiti per L’amico di famiglia, un film che conferma senza sorprese il percorso clamorosamente autoriale di Paolo Sorrentino. Il suo cinema possiede una fisionomia facilmente riconoscibile: ritratti di uomini marginali in bilico tra la rovina e il riscatto, sceneggiature piuttosto complesse con una propensione al rovesciamento finale, ambientazioni fortemente connotate dal punto di vista architettonico e scenografico, uso intensivo di carrellate laterali e in avanti, dolly fastosi e acrobatici, ralenti a vagonate e un gusto marcato per le parentesi musicali eleganti e rarefatte. In più alcuni vezzi come le composizioni geometriche del quadro, il movimento di macchina a “scavalcare” il protagonista e gli incipit folgoranti. Per sottolineare ulteriormente la continuità autoriale, L’amico di famiglia inizia dove Le conseguenze dell’amore finiva, con una persona sepolta fino al collo (là Titta di Girolamo immerso in una vasca di cemento, qui una suora insabbiata) e degli uomini che la osservano e decidono della sua sorte. Ma, diversamente dal film precedente – la cui seconda parte è il miglior cinema prodotto da Sorrentino fino ad oggi - L’amico di famiglia non si scrolla di dosso il marchio del virtuosismo funambolico e a lungo andare finisce per risultare decisamente stucchevole. La parola d’ordine è “pezzo di bravura” (a tutti i costi), sbalordire lo spettatore, ripetergli ad ogni fotogramma che sta assistendo a un film “magistrale”. Già, perché evidentemente a Sorrentino l’etichetta di autore va stretta, è direttamente quella di maestro che reclama con inesausta caparbietà. La vicenda di Geremia “cuore d’oro” de Geremeis, usuraio alle prese con un’umanità meschina quanto e più di lui nello scenario straniante dell’Agro Pontino, diventa allora il pretesto per inanellare inquadrature preziose e stravaganti che precipitano rovinosamente nel formalismo estenuante e nella stilizzazione caricaturale. Non è soltanto lo stile visivo a denunciare questa esasperazione: la sceneggiatura pullula di passaggi strappapplauso (emblematici in questo senso i cinque – cinque! - inizi), di frasi a effetto (“Siamo angeli rumorosi”), di sentenze memorabili (su tutte quella, programmatica, sibilata da Geremia a Rosalba: “Non confondere mai l’insolito con l’impossibile”) che producono lo stesso effetto di saturazione nello stesso intervallo di tempo. Lo score originale di Teho Teardo non alleggerisce affatto i toni: le dissonanze elettroniche e i bip isterici tormentano un tessuto sonoro parzialmente riscattato dalle struggenti melodie di Antony & The Johnsons (My Lady Story, Twilight) e dalle rarefazioni lancinanti dei soliti Lali Puna (System On). Anche la tenuta narrativa è nettamente inferiore a quella dei due film precedenti: L’uomo in più e soprattutto Le conseguenze dell’amore, pur sovraccarichi di parallelismi e simbolismi, potevano contare su una progressione sufficientemente efficace, L’amico di famiglia al contrario perde spaventosamente colpi col passare dei minuti, smarrendo quasi del tutto tensione drammatica e incisività grottesca. Noia. Ultima osservazione sul cast: se Giacomo Rizzo è perfettamente a suo agio nei panni dello strozzino sordido e strisciante, i comprimari gridano vendetta. Fabrizio Bentivoglio è credibile quanto il suo personaggio (un cowboy a Sabaudia) e Laura Chiatti, per quanto inequivocabilmente strappona, sembra seriamente preoccupata di espellere il più in fretta possibile le sue battute anziché prendersi il tempo necessario a renderle verosimili. Sequenza scult: il ballo di Rosalba sul palco di Miss Agro Pontino. Fotografia fin troppo eburnea di Luca Bigazzi.

L'amico di famiglia sposa ostinatamente il riprovevole, lo strano, il deforme - principio verista che si perderà nella contaminazione stilistica (Roba mia, vientene con me!) - e sceglie di occupare la parte sbagliata, frastagliando il confine tra Brutto e Bello con conseguenti derive estetiche della questione. Una premessa infiammata, aperta con fulminante videoclip su base house, che rischia la poderosa metonimia sulla coincidenza tra essere e apparire (non lasciamoci ingannare: il brutto è davvero cattivo), l'annoso equivoco Bene/Male, il potere incatenante del denaro; ma il rimarchevole costrutto iniziale, un'incisiva mezzora di immagine astratta, porta al nulla. Quando viene al sodo, il film si fa esercizio di stile infecondo e velleitario, citando qua e là - il dominio materno (cfr. L'angoscia di Bigas Luna) -, catalogando riprese studiate e pose plastiche senza quadro logico, cedendo infine allo scioglimento rassicurante dell'intreccio (ovvero fornisce una chisusura, didattica e definita, che stride gravemente con l'ambizione immaginifica d'apertura). Duro lavoro quello di Sorrentino che, al laccio di una cinepresa implacabile, può trovare sotto l'ala del noir il prezioso equilibrio de Le conseguenze dell'amore, oppure rotolare goffamente come nella seconda ora di questo film. Il regista oltretutto, tirando delittuosamente la corda delle poche idee valide, le vanifica, rendendo inutilmente stiloso il perenne duello verbale Geremia/Rosalba (una pioggia di aforismi di facile provenienza) e limitandosi in molti frangenti alla curiosità semplice senza traccia di uno scavo (alle ortiche perfino l'amabile Bentivoglio). Non sapendo chiudere la vicenda, infine, pungola l'attenzione con siparietti di biasimevole volgarità (le prostitute nella vasca, i gladiatori che parlano in dialetto sembrano avanzi di un altro film), cita Brecht per puro caso e, al terzo film e primo flop, già afferma pedantemente lo stato di autore. Giacomo Rizzo fa il lavoro sporco, tutto sguardi e smorfie malsane, riuscendo un credibile diavolaccio; Laura Chiatti, che interpreta un film italiano su due, è qui sfruttata dovutamente a livello corporale - la bella scena della danza - ma purtroppo continua a recitare. Il Male è un'idea ammaliante e frequentata, assai pericolosa, spesso fatale - L'imbalsamatore di Garrone -, per farcela ingoiare non basta presentarla come amico di famiglia.