Drammatico

LADYBIRD LADYBIRD

Titolo OriginaleLadybird Ladybird
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione1993
Durata102’

TRAMA

Maggie racconta al nuovo amico paraguense di come gli assistenti sociali le hanno portato via i figli avuti da compagni differenti, causa le sue condizioni economiche disagiate.

RECENSIONI

Fuori discussione l’impegno civile e sociale di Loach partendo dal basso, dalla working class, con uno stile neo-neo-realistico, macchina da presa a mano in luci naturali (16mm poi gonfiati a 35) e interpreti non professionisti di cui restituire le “improvvisazioni immedesimate” (l’esordiente Crissy Rock s’è guadagnata un premio a Berlino non del tutto meritato). Rispetto alle opere di poco precedenti, il regista ritrova la forma del docu-drama di Cathy Come Home e lo spirito più duro e impietoso di Family Life, parlando (in flashback) di disperati, violenze sessuali e amore materno come in Poor Cow. Una tragedia (greca) nel/del quotidiano (tratta da una storia vera) che colpisce nella/per la sua ferocia ma non soddisfa nelle enfasi facili (soprattutto per mezzo del commento sonoro) che fanno capolino in un impianto di presunta imparzialità, dove anche della protagonista si mostrano i lati più scomodi: la qualità del cinema di Loach, che fa di un caso personale un apologo critico universale, non funziona tanto, infatti, nell’attacco ai servizi sociali (burocrati e disumani) ma come spaccato sociale sui circoli viziosi di violenza in seno alla famiglia (e sulle psicologie distorte che quest’ultima crea, vedi sempre Family Life). Non sempre, cioè, gli ingredienti brucianti sanno trasformarsi in potenza requisitoria, colpa di un tema portante poco elaborato dalla sceneggiatura e di questo continuo oscillare fra presa di posizione e neutralità, estremi oltretutto spesso adottati nei passaggi meno opportuni. Alcuni frammenti incantano, soprattutto nel rapporto fra questi due amici antitetici (una sanguigna, l’altro tanto mansueto da sfiorare l’incredibile) e nei pochi attimi di sarcasmo amaro, ma l’opera si fa sublime nel lungo brano sottotono prima del finale, dove mostra le proprie (prima) negate potenzialità: dal dramma della normalità, si trasforma in un incubo kafkiano, paradossale senza bisogno di sottolineature. Ed è questo il grande Loach che vorremmo sempre ritrovare.