
TRAMA
Cleveland è il custode di un residence di Philadelphia. Una notte, sorprende una ragazza immersa nella piscina…
RECENSIONI
Un film metalinguistico che ruota attorno a una piscina (ma Ozon non c'entra). Shyamalan ritorna (dopo The Village) sul tema della frontiera, contrapponendo il mondo degli umani a quello delle creature acquatiche che, millenni fa, erano loro mentori: il contatto, spezzato dagli uomini, è ripristinato dalla giovane Story (nomina sunt omina, come si sa), che emerge dagli abissi per rivelare l'ordine che galleggia sotto la superficie caotica di un gruppo di esistenze anodine. I gesti arcani e le parole spezzate della ninfa portano alla luce ricordi d'infanzia, memorie luttuose, speranze impolverate, repentine illuminazioni: la favola antica tutto (ri)compone e (quasi) tutti assolve, per quanto dolorose possano essere le rivelazioni che porta con sé. La prima parte di Lady in the Water schiera una selva di freak memorabili e ha più di una scena riuscita (l'introduzione animata, l'uccisione della "bestia satanica", la presentazione di Mr. Farber), ma l'apparizione di Story (una Bryce Dallas Howard di fascino spudoratamente preraffaelita) fa precipitare il tutto in una fantasia gotico-sentimentale fin troppo risaputa: non basta ironizzare sulla prevedibilità degli schemi narrativi per schivarne i rischi, e il narcisismo con cui il regista si colloca al centro del gioco scenico supera ampiamente i confini dell'imbarazzo. A latitare non sono i momenti visivamente pregevoli (magnifico, da questo punto di vista, il finale "subacqueo") ma la melanconia, la tensione, l'incanto del racconto di fate, rimpiazzati dal brio meccanico e scricchiolante di un cruciverba prossimo all'autoparodia. Un vero peccato, soprattutto per Paul Giamatti, capace di trasformare uno stereotipo in un personaggio compiuto, disarmante, adorabile.

Preparatevi ad indossare il salvagente: il nuovo film del celebrato Shyamalan Lady in the Water, e mi si perdoni il facile gioco di parole, fa acqua da tutte le parti. Sebbene mutui, chissà quanto fedelmente, figure mitiche dalla tradizione orientale, non vi è traccia di sottotesti, di archetipi universali, di rimandi a dimensioni (paure, sensazioni) ataviche. Trattasi, principalmente, di un'incredibile sequela di situazioni imbarazzanti. Si naviga tristemente nel già visto, nel già detto, in un mare magnum di ovvietà da parata di carnevale new age. Fiera quasi da manuale del film sbagliato di occasioni mancate, di soluzioni discutibili, di toni eccessivamente (ed involontariamente) oscillanti dal dramma alla commedia grottesca ai limiti dall'autoparodia, dalla fiaba edificante all'horror, l'ultima opera di Shyamalan è un clamoroso fallimento, purtroppo non solo in termini di incassi. Come è possibile, per uno spettatore anche bendisposto, prendere sul serio (dunque commuoversi o spaventarsi) un plot nel quale il regista è pacificamente il primo a non credere? Quanta ingenuità dietro la futile speranza che sia sufficiente un intellettualistico ricorso alla metadiscorsività, all'autoriflessività per rendere digeribile ciò che nasce e resta francamente indigesto! Le figure del bosco, i mostri del vicinato non riescono ad incarnare la paura dell'ignoto, di ciò che si nasconde nell'immediato "oltre", ma sembrano piuttosto usciti da un sottoprodotto ennesima filiazione di Scary Movie, così come la candida ninfa delle acque Story, che dovrebbe "purificare" l'uomo riconducendolo alla ragione e contribuire a ripristinare il primigenio equilibrio tra Terra e Acqua, non riesce mai ad essere altro (e più) di una candida sirenetta new age fuori tempo massimo, ora silente ora loquace, che promette improbabili palingenesi. Lo stesso universo di migranti freaks non suscita simpatia, ed il tipo di sguardo adottato dallo sceneggiatore per tratteggiarli e dall'indiano regista per rappresentarli è quantomeno discutibile. Senza peccare di falsa modestia, Shyamalan si ritaglia il ruolo del Messia Vick, pronto al martirio in nome della trasmissione al futuro Presidente del Nuovo Verbo. L'iniziale impressione di sciatteria nella messa in scena (e nel taglio delle inquadrature) si rivela ben presto non frutto di una precisa volontà, non scelta stilistica azzardata, bensì involontaria prova provata dell'assoluta mancanza di fiducia nell'operazione. Mettendo le mani avanti, tra una sciocchezza e l'altra il regista profitta del generale delirio privo di logica per liberarsi dell'inutile, risibile, gratuitamente caricaturale critico cinematografico (ed idealmente della critica, pronta, inevitabilmente, a sparare sul regista) dandolo in pasto alla bestia del giardino nella sequenza migliore del film.

A ben vedere, lo Shyamalan "che conta" ha seriamente girato un solo film (Il Sesto Senso), per poi tornare quattro volte a rimuginare sulla scena del delitto. Unbreakable era una rielaborazione della struttura enigmistica inaugurale; Signs ne rappresentava la (già) definitiva destrutturazione e riproposizione in chiave parossistica e dunque (neanche tanto velatamente) ironica; The Village era invece un raffinato gioco con le aspettative spettatoriali e vedeva nella sottrazione dell’elemento soprannaturale un tiro mancino che, di fatto, ribadiva concettualmente il “colpo di scena” originario (quello del Sesto Senso), chiudendo il cerchio. Lady in the Water assume invece i connotati di un semplice divertissement d’Autore. Un volta cristallizzatosi in tutte le salse, Shyamalan decide cioè di chiosare con una postilla autoparodica e/ma (s)mitizzante in cui concentra, a cascata, tutti gli stilemi del suo cinema in un accumulo quasi demenziale. Il protagonista oberato da traumi pregressi, la galleria di personaggi astrusi, i signs disseminati ovunque pronti all’impossibile (ma immancabile) incastro, il ruolo chiave affidato a se stesso (martire di una rivoluzione di pensiero globale. sic!) e ovviamente il soprannaturale che irrompe nel quotidiano (la piscina-tana della ninfa, i condòmini magici salvatori del mondo). L’operazione può essere accettata o meno (molto dipende dalla legittimità autoriale che si riconosce al regista) ma non credo si possano nutrire dubbi sull’intenzionalità e l’autoreferenzialità consapevolmente sfacciata del tutto. Né sulla competenza tecnica di Shyamalan, che ha saputo costruirsi uno stile registico personale e riconoscibile, seppur ipocinetico, discreto, edificato su due-tre (r)accordi e una mirabile gestione dello spazio filmico e della dialettica campo-fuoricampo. Spassosi la bacchettata alla critica cinematografica (il critico snob che non ha capito nulla del/nel film e muore di supponenza cinefila) e il congedo del personaggio interpretato dal regista, destinato sì a cambiare le sorti dell’umanità ma nondimeno freddato da una derisoria stoccata della ninfa che, sul punto di andarsene su ali d’aquila, gli (pre)dice serafica: “tua sorella avrà sette figli… ma tu ne vedrai solo due”.

La filmografia di Shyamalan è una critica alla razza umana. Un’occhiata veloce lo rende evidente: Il sesto senso si sofferma sulla fine della vita, il dissolvimento del defunto quando questi scompare dalla memoria dei vivi (che uomo è quello che dimentica i propri morti?); Unbreakable narra della deriva fumettistica della nostra società che, piegata ai crismi di un netto manicheismo, cerca il supereroe ma chiude l’occhio che definisce il complesso costrutto del reale (che uomo è quello che non distingue il Bene dal Male?); Signs ancora sulla confusione gnoseologica, guardare ma non vedere, il rifiuto della coscienza e le sue derive (che uomo è quello che confonde Dio con gli alieni?); The Village è un saggio sulla capacità di autosegregazione, la resistenza del meccanismo patriarcale e la scelta ponderata di allontanare per timore il contatto con il dissimile (che uomo è quello che vive nella paura?). Lady in the Water scivola su un cammino di straordinaria eleganza stilistica e rara coerenza concettuale: che uomo è quello che ignora il proprio scopo? Che uomo è quello che rinuncia ad essere salvato? Attraverso una studiata dissertazione sullo storytelling (va inquadrata in questo senso la teorica sequenza d’apertura), Shyamalan torna al ruolo primario di menestrello, cantore di storie, per incontrare il fantastico puro e svilupparne le licenze, non senza custodire delicatamente i propri codici; il ritmo fluido e avvolgente, che segue brillantemente lo stato d’animo dei protagonisti (la ripresa sfocata al risveglio di Cleveland), la costruzione d’atmosfera dove può accadere tutto (e/o nulla) in qualsiasi momento, ma anche il colpo di scena che, non più brutale e squisitamente tramico, risulta più affinato e stratificato (come The Village) e si concentra simbolicamente sull’assegnare ai personaggi il proprio ruolo nella storia. Se il discorso metafilmico soffre qualche inciampo (discutibile, in effetti, la scelta di Shyamalan attore ma egli nasce anche come interprete, vedi il primo lungometraggio Praying with Anger), se la figura del critico cinematografico si limita al giochino d’autore, resta però fuori discussione la capacità di disegnare l’ambiente (Cleveland nella grotta di Story) e innescare en passant il rintocco del cuore (l’arcana sospensione delle scene con la ninfa) anche quando il film diventa smaccatamente kitsch, fuori luogo, e si affida al fascino spudorato dell’anticaglia (le creature, come gli alieni di Signs, escono da una pellicola anni ’50). Sul piano formale l’autore racconta una fiaba, lo dice chiaramente e, rammentando la sequenza d’apertura di The Others (Bambini, state seduti comodi?), scansa elegantemente chi vuole fare altro. Non solo: è un attacco frontale contro l’uomo quello che sferra Shyamalan, a malincuore, con un filo irrisolto di tristezza, che trova in Dallas Howard una splendida foglia tremante e in Giamatti una prova umana e recitativa da pianto a scena aperta. L’ultima lacrima, infine, è quella riservata al dubbio doloroso se verrà mai pienamente compreso questo regista.

In The village l'onnipresente (in Shyamalan) dimensione metalinguistica si concentrava sui limiti, sui confini dell'inquadratura, facendosi al contempo riflessione sul mondo e sul mezzo espressivo: la piccola comunità si inquadrava, escludendo un fuoricampo che era causa necessaria e invisibile, motore della narrazione e della messa in scena, e palesando in questo modo la dimensione più intimamente politica del fare cinema, quella legata alla scelta dei confini dell'immagine (e lo stesso cinema di Shyamalan, che parte sempre da una esclusione, non nasce forse da un presupposto simile?). Lady in the water non sembra opera opposta e complementare a The village unicamente per il cambiamento di prospettiva nella rappresentazione della società (anche se è il fine ultimo), ma sembra farsi suo negativo su vari livelli: se era sull'esterno, su ciò che sta oltre i confini, che si fondava la storia inventata dalla comunità ora la storia (o meglio Story) è occasione per inventare i personaggi, per far trovare loro la propria dimensione; Lady in the water è la narrazione nel suo farsi, non più racconto da subire, è la favola che i protagonisti fanno di tutto per potere raccontare, per potere utopicamente realizzare, al di là di qualsiasi deficit, in questo caso ovviamente linguistico. Concentrandosi all'interno (seguendo ciò che abbiamo detto sinora sulla narrazione, sul cuore del mettere in scena), Shyamalan rinuncia alla centralità della sovrastruttura tipica del suo cinema (il ribaltamento), emancipando il colpo di scena dalla sua natura effettistica e attribuendo alla conseguente revisione da parte dello spettatore il compito di gettare luce sulla vera natura dei personaggi, smentendo le dinamiche prestabilite da chi non ha più alcuna fiducia nelle potenzialità del racconto e della società. Lo stesso apparato simbolico (la cui perenne presenza in Shyamalan viene sottolineata dalla centralità della ricerca del 'ruolo' dei personaggi) risente di un cambiamento di segno, rispetto a The village, basti pensare al ruolo dei figli: non più menomati nel fisico o nella psiche, o sottomessi agli errori dei padri, ma in grado di aprire nuove vie, come traduttori e mediatori. Lady in the water ci pare il racconto di una rinascita morale, così come The village era il racconto di una degenerazione. 'Ci pare' perché all'interno della dimensione metalinguistica autoreferenziale e, come sottolinea l'ottimo Pelleschi, al limite della parodia, la storia diventa una storia di Shyamalan, il cinema diventa il cinema di Shyamalan, la speranza viene circoscritta in un' illusione privata. Che è quella del suo autore.

Sembra che la macchina comunicativa e promozionale del regista abbia diffuso la notizia che il soggetto del film sia lo sviluppo di una fiaba inventata dall'autore per i propri figli. È in effetti consistente la sensazione di essere di fronte a un cinema domestico, infantile placido e ripetitivo (a parte una virata sempre più stretta verso la dimensione religiosa, un insulto alla religione e alla fede come le schifezze su Padre Pio di moda qui da noi), il quale per 100 minuti macina a vuoto una smunta ideuzza lambiccando senza mistero, angoscia, incanto; e va poi a parare nel disegno allegorico ormai stranoto di Shyamalan. Il peggio è che, ripensando alla visione, ben pochi elementi giungono a contraddire tale sensazione. A parte qualche tocco di blanda e non troppo arguta ironia nel dipingere la varia umanità dei personaggi, il marchingegno della suspense e dello spavento non funziona più; quello poetico-metaforico aveva sempre funzionato poco, e oggi naufraga in una supponenza insopportabile: non se ne può più delle banalità sul destino che ci vengono immancabilmente propinate nelle opere del Nostro. E con quale dovizia di argomenti! La massima suprema, stavolta, è “gli uomini credono di essere soli, invece sono legati gli uni agli altri”. Non credevamo alle nostre orecchie, quando l'abbiamo udita. La morale, “nessuno può sapere prima del tempo qual è lo scopo della sua esistenza” – scopo, avete letto bene: siamo ridotti a questo. I pericoli della guerra, che con somma finezza compare ininterrottamente sugli schermi televisivi dei nostri eroi a segnalarne le paure e la drastica insicurezza (senza che essa minimamente trapeli dai personaggi, come sarebbe più ortodosso e onesto, ma anche più difficile da realizzare), devono aver prodotto nella mente del regista qualche pericolosa deriva teo-teleologica, giusto sul tipo di quella che ha condotto alla guerra. Non tragga in inganno l’apparente medietà affettuosa del plot; quella del regista è una versione aggiornata e misticheggiante del sogno americano: credi in te stesso e vincerai. Ove la fede difetti, il soprannaturale dà una spintarella; ecco perché la stralunata creatura delle acque, alla fine, ha compiuto la sua missione di salvezza dell’umanità (missione della quale, sciocchi che siamo, durante il film non ci eravamo accorti), garantendo il nobile coraggio del futuro presidente degli Stati Uniti!! Non stiamo scherzando, succede proprio così. Rivogliamo l’ironia del Lester di Superman II, se non il genio corrosivo del Burton di Mars Attacks! Con un siffatto bagaglio filosofico, la palingenesi dell'umanità è poi affidata direttamente nelle mani di Shyamalan: egli non si limita più a comparsate sempre in qualche modo decisive, nei propri film (altro che gustose apparizioni; epifanie della Verità, piuttosto), ma addirittura assume un ruolo da uomo del destino: il giovane che, come la sirenetta iettatoria si cura di far sapere, scriverà un libro destinato a mutare le sorti del pianeta, ma verrà ucciso da qualche fanatico e non vedrà perciò il trionfo della propria visione del mondo (peraltro pietosamente risparmiataci). Me' cojoni!, dicono a Roma. In caduta libera è la tensione, la cui costruzione progressiva era il conclamato fiore all'occhiello dell'autore (secondo l’aureo modello di Sir Alfred, al quale il Nostro si richiama apertamente, e buon pro gli faccia): ormai i giochi acustici e visivi di Shyamalan non spaventano più nessuno; i personaggi non hanno neppure l'esiguo ma funzionale spessore che in passato si vedevano conferito, i tentativi di costruire un coinvolgimento dello spettatore alle loro vicende sono penosamente ridicoli: il protagonista ha perso moglie e figli per mano di criminali (si va avanti a colpi d’ascia nel guazzabuglio del cuore umano, ben lontani dalla crudele sottigliezza psicologica del modello hitchcockiano) e naturalmente la misteriosa creatura, indiscreta come un maggiordomo della Real Casa, ficca il naso nel diario del poveretto e ci spiattella il gran segreto. Invece di prenderla a schiaffi, lui piange. Poi, siccome occorre che un personaggio (crucciata guida morale del condominio) persuada il protagonista a non mollare nel momento dello sconforto, ecco che il luttuoso segreto è noto a lui pure. Non finisce qui: l'allegra combriccola decide di scrutare i simboli che il Demiurgo dissemina nel mondo, e in ciò si affida a un bambino più stupido del consueto che legge l’arcano sulle confezioni di corn flakes (sarà per comunicarci ne non v'è distinzione fra umile e nobile, nell'universo? Rabbrividiamo), e non ne imbrocca una sino al finale. Così, metà del film procede in un insensato e tedioso gioco di ruolo (“Sono l'interprete o il difensore?” “Sei il guaritore o il testimone?” E chi se ne frega), mentre il domatore morale continua a bastonarci la testa con le sue figurazioni allegoriche, di spessore pari a quello di una sottiletta e d'interesse pari a una lezione di teologia razionale del curato del paesello, quello col naso rubizzo che ti entra in casa a ferragosto per impartire la benedizione pasquale.
Illuminazione. La favola che il regista racconta ai suoi pupi serve a farli addormentare in super-fretta, sì che l'affettuoso papà si possa dedicare a più dilettevoli intrattenimenti con la gentile consorte. Dall'apprezzato “cinema da camera” (Cherchi Usai) dei primi tempi, Shyamalan è scivolato in un cinema parrocchiale e soporifero che prelude alla (sua) alcova. Ma noi che c'entriamo?
I critici che intendono abbattere il film sotto una gragnuola di meritatissime contumelie si guardino però dalla vendetta dell'autore, che come si è detto è il Rinnovatore dell'Umanità e per questo sarà senz'altro dotato di qualche superpotere. Né essi potranno dire che Manoj non li aveva messi sull'avviso; infatti, compare nel film un antipatico signore (Bob Balaban, malcapitato in ben trista compagnia, e sempre più somigliante a Gianni Clerici) che di mestiere fa il critico cinematografico, e parla molto male dei film che ha il dovere di visionare: questo è nuovo ma non è bello, quello è vecchio ed è pure brutto, l'altro è banale e sciocco, eccetera. La sola figura riuscita del film. Ebbene, il regista gli scatena contro il cagnaccio partorito dalla propria fantasia e lo fa a pezzettini. Meditate, critici, meditate sulla vostra alterigia cieca, incapace di comprendere la vera arte. Anzi, già che c’è chi scrive si mette al riparo proclamando che Lady in the Water è un’onirica e complessa allegoria del processo creativo dell’artista, stretto fra critici insensibili, un’umanità in inconsapevole deriva e in attesa di salvezza (“Solo un dio ci può salvare”, gracidava Heidegger subito prima di ravvisare il suddetto dio nell’omino coi baffi che praticava la ginnastica ritmica col mappamondo), e gli imperativi del senso prefabbricato, che la critica togata e il senso comune vogliono imporre alla sua scalpitante fantasia. Ma alla fine l’arte trionfa sempre, anche nell’esposizione della sua propria impasse. L’ultimo film di M.N.S. è il nuovo 8½. O, in alternativa, è la riuscitissima parodia – à la Scary Movie – del sistema filmico d’un regista che conobbe un meritato successo con un’opera su morti viventi e benevoli.
