TRAMA
Will, quarantenne newyorchese abbandonato dalla moglie, ricostruisce la sua storia in una seduta di psicanalisi: l’amore per Abby, gli anni del college, l’intimità matrimoniale, un pranzo con i genitori di lui e poi, inatteso, il giorno della separazione. O forse no. Forse nel passato di Will c’è evento così traumatico da non poter essere raccontato…
RECENSIONI
Una storia divisa in capitoli, con narratore in scena (Samuel L. Jackson all’inizio) e sguardo in camera, una didascalia dichiarata: siamo all’interno di un libro. Storie distanti che progressivamente palesano punti di contatto che innescano rivelazioni a catena, livelli temporali che si richiamano mettendo a nudo giochi di destino imprevedibili.
Perché Fogelman, se rappresenta un fatto e la sua conseguenza, non lo fa necessariamente in quest’ordine e, inaspettatamente, mostra il racconto quale effetto di un evento passato che si fa nota esplicativa. O che mette in luce impensabili implicazioni. Come nella serie This Is Us, di cui è produttore e sceneggiatore, passato e presente (futuro?) costituiscono un unico magma temporale. La poetica del regista è limpida: la vita come un piano di connessioni, di legami visibili e invisibili tra soggetti vicini e lontani, nello spazio e nel tempo. Ogni individuo esiste, anche solo come possibilità, già prima di nascere e continua ad esserci, come effetto sulle altrui vite, dopo la morte. Perché in Fogelman morire non è una conclusione, continuando a sussistere una rete di rapporti, relazioni, legami, cause ed effetti che non si estingue con la persona. Non c'è Io, c'è solo Noi, e la vita è un fenomeno imprescindibile da questa pluralità (This Is Us, appunto). Tutte le esistenze si intrecciano e si influenzano: così le storie dell’americano si mettono in scena in una realtà vista come sistema di nessi ed effetti domino, senza fine né inizio. Motivi presenti anche in quel mezzo capolavoro che era Danny Collins, in cui la storia (vera) della lettera di John Lennon cambia la vita del destinatario che non l'aveva mai ricevuta (il migliore Al Pacino degli ultimi anni): appresane l'esistenza in ritardo, Collins dà una svolta alla sua esistenza a tempo quasi scaduto. E nel film le canzoni dell'ex Beatle hanno la stessa funzione (influenzare, commentare) che in questo ha il mix di gioia e malinconia di Time Out of Mind, l’album di Bob Dylan.
Perché Life Itself è un’ulteriore declinazione di questo concetto in una chiave, però, dichiaratamente metatestuale, insistendosi sulla questione della narrazione e dell’inaffidabilità di chi la enuncia. Dunque è esplicito che quella che vediamo è solo una versione personale degli avvenimenti, probabilmente deformata da un trauma (la psicanalisi a cosa dovrebbe servire, sennò?), dall’impossibilità di accettare una realtà dolorosa. Un racconto costantemente inaffidabile: come la vita, che non si sa mai che direzione prenderà.
Film carico di motivi, sbilanciato e quindi tutto da amare, La vita in un attimo si muove ai confini dei trick narrativi dei maestri della sci-fi umanista e del racconto paradossale di questi anni (tutti provenienti dalla videomusica: Gondry, Jonze, Mills, laddove si staglia l’ombra della titanica figura di Charlie Kaufman), perché niente sa maneggiare il tempo (e comprimerlo, sintetizzarlo, processarlo) come il videoclip. E ammicca ai mosaici narrativi di Guillermo Arriaga: non solo un gioco, perché dietro l’architettura lambiccata del senso, dietro la teoria narratologica c’è un melodramma, un mix di sentimenti - gioie e dolori - che brilla e non si lascia impigliare nella lucida struttura. Ci si commuove, dunque, si partecipa, ci si stupisce, anche quando l’ultima agnizione suona solo come una conferma di ciò che avevamo capito dal primo minuto del film.
Olivia Wilde splendidamente incinta nella finzione ricorda se stessa incinta nella realtà, che fosse con una semplice canotta o con il meraviglioso abito a sirena Gucci Première dei Golden Globe 2014, verde, come i suoi rari occhi; Oscar Isaac è ancora un po’ Llewyn Davis, o forse Llewyn Davis è un po’ Oscar Isaac, anche se stavolta si vuole che non capisca abbastanza di musica da non dileggiare Bob Dylan; Annette Bening è un’analista, come sarebbe plausibile nella realtà; Antonio Banderas è uno spagnolo andaluso e Samuel L. Jackson è Samuel L. Jackson: i ruoli rimescolano visioni e suggestioni preesistenti confondendo l’umano e l’attoriale, giocando con il “farsi” del film dichiarato mentre avviene e tradendo le aspettative che crea di volta in volta. Insomma, niente di nuovo. La vita, in un attimo, fa accadere cose –vedere gente- che un istante prima nessuno avrebbe immaginato; l’eroe a cui ci siamo affezionati disattende le aspettative, viene ostacolato o, più semplicemente, muore. Quest’ultima semplificazione forse è un po’ abusata nel film, che arriva a far supporre una proverbiale cattiva sorte che grava sui suoi protagonisti, se non fosse che anche alle sventure, poetiche e non, nella vita siamo abituati. Di fatto, e qui è lo snodo del film, il regista-scrittore-autore è un narratore inaffidabile che rimescola le carte quando meno ce lo aspettiamo, ma poiché neanche lui ha il controllo assoluto del materiale che ha tra le mani, il vero narratore inaffidabile della vita è la vita stessa, Life Itself, come da titolo originale. Vita e morte, gioia e dolore, si alternano a tratti gondrianamente, in una confusione dei piani del reale che sembra sogno o simulazione, ad altri tratti resnaisianamente, nell’aleatorietà dei frammenti che compongono un quadro in continuo slittamento; il fato piomba almodovariano, nei suoi drammi forti e nella forza di superarli, l’inganno è egoyaniano, nell’ambiguità dello strumento di ripresa e della narrazione cinematografica che ricalca l’ambiguità dell’individuo e del suo relazionarsi col proprio passato e con un contesto che diventa spesso un loop (ricordiamo su tutti il bellissimo Adoration e il suo protagonista che ripensa, sceneggiandola, la propria vita e la perdita della madre, Rachel Blanchard splendidamente incinta dagli occhi verdeblu).
E quel tocco di Magnolia che dà alla vita un profumo di chissà cosa ma che ha, stavolta, per una volta, più cuore che carne (al punto da rinunciare alla spicciola carnalità, ma non al sentimento che sottende, anche nel bel mezzo di un vigneto andaluso). La quadratura del cerchio, tuttavia, è pienamente americana e si risolve nella morale consolatoria e commossa della vita che continua, conservando memoria genetica e letteraria di ciò che scompare, soluzione semplicistica a dramma semplicistico, preoccupato di mettere ordine nel(la teoria del) caos che esso stesso genera, per bisogno e per diletto. Non si può dire che Dan Fogelman non sappia quel che fa: da bravo sceneggiatore di esordio disney-pixariano (Cars, Rapunzel, Bolt) sembra mettere insieme il proprio lavoro e una riflessione sul proprio lavoro, che diventa riflessione sulla vita stessa, appunto, e che pare perfettamente rispondente alle intenzioni, ma che non sfugge allo stereotipo nemmeno cavalcandolo e non ci porta, in tutta onestà, da nessuna parte e, se si salva, è per ragioni di innocuità. Anche perché, una volta svelato l’inganno e la tesi dell’ “inaffidabilità”, non si comprende perché drammatizzare tanto: è solo questione di film. E, alla fine, di tragedia in tragedia, fra personaggi in fondo tutti amabili come capita di rado (nella vera vita e nei veri film), nell’ingenua fiducia dei loro gesti c’è un impulso vitale a dispetto di tutta l’impalcatura artificiale che ne contiene le storie; c’è una dolcezza, c’è una bontà, c’è una tristezza giusta e una giusta felicità; c’è sincerità, probabilmente; e a quel punto si capisce che il problema resta “soltanto” il film, itself.