
TRAMA
Ingrid e Martha, due amiche di gioventù separate dalle circostanze della vita, si ritrovano in una situazione estrema. La prima è diventata una scrittrice, mentre la seconda una reporter di guerra.
RECENSIONI


Il nitore e la sintesi sono una conquista che solo i grandi maestri riescono a raggiungere, quasi senza sforzo. Pedro Almodóvar dagli eccessi sgargianti e vibranti del suo cinema a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, per sua stessa ammissione, da un po’ di tempo, ha cambiato registro e forma espressiva. Spogliare e ridurre all’essenziale, ammantare di classicismo, asciugare le emozioni sembrano essere i nuovi codici. La stanza accanto, pur ricco di contrasti cromatici e vivido nei colori, riduce al minimo l’eccentricità e i volumi, i toni melodrammatici e quelli grotteschi. Anzi. È probabilmente il film più stilizzato e ieratico di tutta la sua filmografia. Certo, i suoi feticci ci sono tutti - la pittura, l’art design, la letteratura -, incastrati perfettamente dentro una ballata crepuscolare e malinconica. Il film sembra essere un compendio-testamento, e non perché Almodóvar abbia dichiarato di non voler più fare cinema, ma per la chiarità del suo pensiero e l’esplicitezza delle sue visioni. Un film profondamente laico e politico in cui si intrecciano, convergono e si suturano numerosi temi: il fine vita e l’eutanasia, il fanatismo religioso, l’avanzata delle destre estreme nel mondo, il cambiamento climatico. Martha e Ingrid, amiche soprattutto durante la giovinezza, si rincontrano casualmente. La prima è una fotoreporter di guerra (solida e pragmatica), la seconda una scrittrice di successo (sensibile ed emotiva). Martha sta morendo, affetta da un cancro alla cervice, Ingrid le sta accanto e la accudisce, accompagnandola durante l’ultimo viaggio. Un’opera dagli echi bergmaniani, austera ma non anemica, struggente e rarefatta, in cui non vi è una nota di troppo o un dettaglio innecessario o fuori posto. Un dramma da camera di grande eleganza formale, geometrico, sottile e ipnotico, retto da un equilibrio perfetto, mai declamatorio o ricattatorio. Denso di dialoghi: sul tempo che passa, il ruolo genitoriale, il destino, il libero arbitrio. Dove i primi e i primissimi piani sui volti e sui corpi colgono il dolore, la sofferenza, l’impotenza con pudore e rispetto, senza scadere mai nel morboso. Soltanto nei flashback il rigore si appiana, e il melò (larger-than-life) esplode soapoperistico, come se il passato rivelasse tracce che il presente non è in grado di decifrare, se non nello spazio ingombrante e sovraccarico della reminiscenza. Un film sull’amicizia e la solidarietà femminile, sul potere (e l’impossibilità legale) della scelta di porre fine alla propria esistenza, sull’armonia e la bellezza dell’incontro umano, che celebra la vita raccontando la morte. Tilda Swinton e Julianne Moore, attraversate dalla luce opalescente di un’America diurna e primaverile, sono l’una la nemesi dell’altra, e vibrano all’unisono, intense e commoventi. Fiocchi di neve rosa cadono soffici fuori dalla finestra, per un attimo il dolore si placa e il dramma scivola nella favola.

FINE DELLA POLITICA
Ho atteso con impazienza il film di Almodóvar e ne sono rimasto davvero perplesso. Il film è sostanzialmente “a tesi”, programmaticamente derivativo e meta-cinematografico ma senza alcun guizzo di stile che non sia “patteggiato”, “allineato”. La personalità stilistica di Almodóvar è assoggettata inconsapevolmente alla ultra-capitalistica globale dittatura fashion, senza nemmeno una irrisione. È un film decisamente reazionario (reazionario rispetto all’approccio dell’autore un tempo irriverente stilisticamente a qualsiasi dittatura di linguaggio). E questo punto è assai indicativo di questo periodo artistico buio e barbaro. Lo stile personale, unico, irripetibile di un autore si sta piano piano addomesticando ai diktat della società globale, preconizzata da Marcuse, che tende a omogeneizzare qualsiasi visione autenticamente soggettiva. C’è chi soccombe in maniera definitiva e chi, a metà come Almodóvar e molti altri autori, illude o si illude di lasciare una personalissima, soggettiva visione stilistica pur inglobandola totalmente nel sistema. Nel sistema del tema politically correct dell’inclusione (la ragazza lesbica che chiede l’autografo a Julianne Moore nella prima scena di overture), del tema dell’inquinamento (il terribile personaggio di John Turturro volano della tematica ambientalistica).
Ma passiamo oltre, verso il buco nero del film: la sceneggiatura. Piatta, superficiale. Ogni gancio è grossolano. Inizia alla storica libreria Rizzoli di Broadway dove il personaggio di Ingrid (Julianne Moore) viene a sapere da una conoscente che l’amica in comune Martha (Tilda Swinton) è malata. Sempre in linea “con il detto” Ingrid riferisce di non averla vista da anni ma si ripromette di andare a trovarla. Con la piattezza “causa/effetto” di soap-opera la scena immediatamente successiva inquadra proprio Ingrid nei corridoi di un ospedale a cercare la stanza di Martha la quale poi sempre in quel “detto” le riferisce piattamente la sua condizione e così via per tutto il film… Tutto in una verbosità senza ombre, mistero, conflitto. Programmatica esposizione di una tesi - il diritto all’eutanasia - che Almodóvar (giustamente) rivendica ma senza creare conflitto interiore, soprattutto e più che mai nel personaggio davvero scritto sommariamente e interpretato con sottile impaccio, ma buona volontà dalla stupenda (in altri film) Julianne Moore. Personaggio superficiale, speculare, con una vaga paura della morte che più o meno abbiamo tutti, come ha scritto un mio amico drammaturgo. C’è una scena in particolare dove si sarebbe potuto approfondire qualcosa di più di Ingrid, ovvero quando le due amiche tornano a New York per prendere la pastiglia della morte dimenticata nell’abitazione di Martha. Chi ritrova la pastiglia è proprio Ingrid che in virtù della sua “scritta” paura della morte non può non vivere conflitto morale nel momento di ritrovare l’arma del futuro suicidio dell’amica. Non si pone problema di nasconderla, di prendere del tempo. Non si pone dubbio morale su sé stessa. Nulla. Le scene con il personaggio posticcio interpretato da Turturro non fanno che peggiorare questo andamento drammaturgico. Non sto evocando un mancato senso di vero-somiglianza, di realismo, ci mancherebbe. Non sto stigmatizzando il voluto stile geometrico e algido, alieno di melodramma. Sono solo perplesso del risultato. E la citazione al sublime, dolcissimo, epifanico, novecentesco The Dead di John Huston l’ho vissuta personalmente come un sacrilegio. Mi indigno moltissimo che certi critici abbiano poi scomodato Bergman. Di bergmaniano il film non ha davvero nulla. Forse lo hanno citato per la verbosità. Peccato che i dialoghi di Bergman siano profondi, densi, stratificati, contraddittori e nulla abbiano a che vedere con il vuoto didascalismo di un film “di contenuto senza forma”. Di un film paradossalmente conformista. “Non politico”, nell’accezione rivoluzionaria del termine, intendo, perché la politica, per scomodare qualche filosofo novecentesco, è soprattutto linguaggio e non contenuto. A meno che il linguaggio non sia stato equivocato da molti critici anche sofisticati con “la griffe” che Almodóvar baratta sapientemente con Casa-Vogue America, da abile imprenditore della sua visione autoriale.
Tutto questo non può più sorprendermi però. Non deve sorprenderci. Perché La stanza accanto è davvero lo specchio di questi tempi.
