Drammatico, Focus, MUBI, Recensione

LA SCELTA DI ANNE

Titolo OriginaleL'événement
NazioneFrancia
Anno Produzione2021
Durata100'
Trattodal romanzo di Annie Ernaux
Fotografia

TRAMA

Francia, 1963. Anne ama la letteratura e ha deciso di farne un mestiere, fuggendo un destino proletario. Sui banchi è brillante, sulla pista da ballo altrettanto. Tra una birra e un twist, dribbla gli uomini che la desiderano come in un romanzo rosa. Ma Anne preferisce la letteratura alta e affonda gli occhi blu tra le pagine di Sartre e di Camus. In un ambiente e in un Paese che condanna il suo desiderio e guarda con diffidenza alla sua differenza, Anne scopre un giorno di essere incinta e privata della libertà di decidere del proprio corpo e del proprio futuro. Intanto conta le settimane e cerca disperatamente di trovare una soluzione.

RECENSIONI

Un Mai, raramente, a volte, sempre pre-sessantottino quello della sceneggiatrice e regista Audrey Diwan, che con il recente film della pressoché coetanea americana Eliza Hittman condivide prima di tutto le premesse anti-dilemmatiche: la scelta è stata fatta, senza dubbi, senza tormenti, e deve essere portata fino in fondo, perché l’evento non sarebbe lieto, perché è troppo presto, perché mancano le premesse necessarie. Nel film americano del 2020, due ragazze si incamminano verso una missione sgradevole, imprevista, triste, ma unica possibile soluzione, in un contesto di legalità, ma di generale indifferenza; nel film francese l’ostilità del mondo là fuori è letteralmente una guerra da combattere in solitudine. Alle atmosfere indie della Hittman che indugiano su una solitaria malinconia, si sostituisce la fierezza della protagonista di Diwan, Anamaria Vartolomei, che condensa il film intero nei suoi occhi blu profondi, combattivi, riassumendo l’ansia crescente del tempo che trascorre spietato, di un percorso di studi che rischia di essere negato per sempre, dell’obiezione di coscienza, del giudizio, della paura generalizzata che non le concede un barlume di solidarietà. La voce negata a una posizione differente, a una politica che solo il decennio successivo avrebbe trovato uno sbocco giuridico dopo essere esplosa nelle strade, vede la sua rappresentazione più brutalmente materiale nel divieto di gridare, imposto dal timbro androgino di una Anna Mouglalis risolutiva, ma ferrea e distaccata, tuttavia unica strada d’uscita, unico ponte fra il divieto e la libertà -praticamente una criminale necessaria-: dove nel dimenticato The Tribe (2014), film girato nella lingua dei segni, l’aborto silenzioso, per disabilità, soffocava le sensazioni nella terribile privazione dello sfogo sonoro, in L’ Événement è l’handicap sociale a ridurre al silenzio, dall’omertà all’isolamento nella sofferenza. Il tutto non nell’Ottocento vittoriano o nel contemporaneo Afghanistan, ma nella Francia del ’63, cioè dietro l’angolo, l’altro ieri. E la storia non è solo una realistica ricostruzione, ma il frutto di una testimonianza reale che la scrittrice francese Annie Ernaux, a quasi quarant’anni dalla sua personale vicenda di aborto clandestino, mise in forma di romanzo nell’anno 2000; oggi, altri vent’anni dopo, quell’ “Evento”, che riassume nel suo titolo il bene e il male, l’accadimento e la volontà, è anche un film; e un Leone d’Oro.

Che l’ “oggetto-film” sia capitato al posto giusto e al momento giusto per vincerlo, è argomento al quale partecipare è a rischio polemica e non partecipare è a rischio snobismo: probabilmente è andata così, del resto un film è un testo che vive nel suo contesto e con esso si relaziona; considerarlo in valore assoluto significa privarlo di una cornice culturale, considerarlo solo in forma contestuale significa, da entrambi i lati, pro e contro, ridurlo al suo tema. Ovvero si rischia, per paradosso, di perdere di vista il film stesso. L’ Événement non rivoluzionerà la storia del visivo, non ha sbaragliato i concorrenti con la sua sorprendente narrazione; ma ha una regia forte, che accompagna una protagonista altrettanto forte come quasi unico sostegno al vuoto umano che le si estende intorno; racchiuso nel suo formato “Academy”, quel 1.37 di poco più ampio del quasi quadrato 4:3, ha un impianto classico che afferisce al passato senza troppe arie vintage, riuscendo a parlare anche il linguaggio di oggi (il suo accostamento a Mai, raramente, a volte, sempre è anche per questo pertinente, per reale affinità). Nella penombra delle stanze, nel privato dei sentimenti, della biancheria, dei libri, nell’esibizione del desiderio sessuale che si traduce in voltafaccia perché di desideri si può parlare, di conseguenze no, negli egoismi, nella freddezza, nell’angoscia, la regista Diwan non abbandona mai la sua protagonista, la tiene stretta nella sua fisicità, crede in lei, la supporta e la porta verso la vittoria, verso la riconquista del suo progetto di esistenza. Ideologicamente orientato o no, un leone per una leonessa.

Dal libro al film

Nei mesi che precedono la stesura di L’evento -  il libro da cui Audrey Diwan ha tratto il film vincitore del Leone d’oro alla Mostra di Venezia 2021 – la scrittrice Annie Ernaux è a Parigi. In seguito a un amplesso “a rischio”, prende appuntamento in uno studio medico della città per un test dell’HIV (la possibile punizione per aver avuto, da donna, l’ardire di supporre che non ci sia mai «alcun rapporto tra il sesso e qualcos’altro»?). Mentre aspetta di ricevere i risultati, un riflesso incondizionato della memoria la riporta all’8 ottobre del 1963, reimmergendola «nello stesso orrore e nella stessa incredulità» di quel giorno della sua giovinezza in cui, ventitreenne studentessa di Lettere, aveva atteso in uno studio analogo l’esito di un test di gravidanza. Da questo déja-vu, da questo collasso del passato sul presente, da questo inaspettato dialogo tra due diverse epoche della storia francese (pre e post Legge Veil) e, parallelamente, tra due diversi eventi della vita (segnati da verdetti di segno opposto: negativo il test dell’HIV, positivo quello di gravidanza), scaturisce l’urgenza del racconto e sgorga infine il romanzo, che è la cronaca stringente dei suoi tentativi di abortire a tutti i costi, mettendo a rischio persino libertà e sopravvivenza pur di preservare la propria idea di futuro. Animata dalla limpida convinzione che «aver vissuto qualcosa conferisce il diritto inalienabile di scriverne», Ernaux accoglie l’auspicio del satrapo Michel Leiris, poi citato in esergo, «che l’evento diventi scrittura, che lo scritto diventi evento», e si accosta al suo passato vestendo i panni dell’investigatore, adoperandone gli strumenti («la ricerca e la trascrizione dei dettagli, l’analisi dei fatti») e il lessico («non avevo nessun indizio, nessuna pista») per descrivere una duplice indagine: da una parte - nel presente della scrittura - lo scandaglio dei ricordi, il meticoloso reperimento di dati & date nei diari dell’epoca; dall’altra - nel 1963 - la forsennata ricerca di un modo per riappropriarsi di quel tempo perturbato dalla gravidanza che ha smesso di essere «una sequela interminabile di giorni che conduceva agli esami o alle vacanze estive, al futuro» diventando una «cosa informe che avanza» dentro di lei. Un modo per abortire, direbbe Ernaux, se per quel termine impronunciabile, inutilizzabile ci fosse un posto nel linguaggio, se quel concetto irrappresentabile potesse trovare spazio tanto nelle conversazioni con i dottori quanto nell’immaginario: è per rimediare a questo scacco del lessico sulla realtà che la scrittrice affila e sterilizza le proprie parole con precisione assoluta, come se fossero, queste, i ferri stessi della mammana. Attuando una vera e propria rivoluzione copernicana, Ernaux spoglia l’atto dello stigma in cui è avviluppato e ne fa qualcosa di liminale - «un’esperienza umana totale»; una «pura esperienza della morte» ma anche «della vita», perché è uccidendo quel che le cresce dentro che Ann(i)e può rimettersi al mondo, e così del resto va inteso il titolo: evento come “fatto”, “accaduto”, ma anche come “lieto evento” nel significato di ri-nascita - e allo stesso tempo qualcosa di materico, tangibile, banale come l’immagine «di una spazzola per capelli accanto alla bacinella d’acqua in cui era a mollo una sonda». Difficile allora immaginare un servizio migliore di quello reso da Audrey Diwan all’autrice con il suo La scelta di Anne - L’événement, che cassa la cornice del romanzo e prende direttamente le mosse dal thrilling della narrazione, facendo di quel lontano 1963 il presente vivo del racconto  nel quale inseguire, con passo incalzante, ciascuna delle tappe che condurranno all’evento. Restituito, questo, in tutto il suo realismo e senza alcuno sconto, senza “risparmiare” allo spettatore quelle scene più crude che, come previsto da Ernaux tanti anni prima, potrebbero suscitare in lui «irritazione, o repulsione»: mostrare un aborto come sceglie di fare la regista francese significa restituirgli un posto nell’immaginario e nell’immaginabile; significa rendere finalmente visibile, evidente, quella «catena invisibile di donne» alle quali la scrittrice si sente unita da una comune derelizione. «Chissà che la memoria non consista solo nel guardare le cose fino in fondo» si chiedeva Yûko Tsushima, citata da Annie Ernaux al principio del libro: che sia questa la perfetta descrizione, pur ante litteram, del film?

Riducendolo all'osso, il motore narrativo de L'événement è un corpo, quello di Anne, che ha smesso improvvisamente di sanguinare. Segue, una corsa contro il tempo (che ovviamente si misura in settimane) per vedere nuovamente il sangue e poter andare avanti con la propria vita, lo sgomento per quello che verrà, l'orrore di un corpo che dall'oggi al domani smette di appartenere a se stessi e che diventa proprietà altrui, della Morale, della Legge. E ancora, un orrore che è duplice, allo stesso tempo interno come il parassita (alieno, non voluto; non adesso, non qui, non così) che si è impossessato del ventre di Anne per crescere e venire al mondo, ed esterno, tangibile nella violenza degli sguardi degli altri, di una legge che vede la gravidanza come una condanna indiscutibile e che punisce il desiderio di scegliere cosa fare della propria vita con la detenzione; in altre parole, con un'altra, ennesima, forma di possesso del corpo (femminile) altrui.


Nell'affidarsi pienamente al corpo della bravissima Anamaria Vartolomei e nel costringerlo all’interno di un soffocante formato academy (leggermente più ampio del 4:3), la regista francese Audrey Diwan compie una scelta di campo e di sguardo mica da poco: se da un lato l'aspect ratio ci dice che è solo lei che dobbiamo guardare e comprendere, Anne (il suo corpo, il suo volto, e quindi la sua decisione, la sua consapevolezza, la sua paura, il suo dolore), dall'altro ci ricorda costantemente che lo spazio sociale e culturale entro cui si muove - che ovviamente non si limita alla Francia del 1963 in cui è ambientata la vicenda - è di vedute strettissime e retrograde. Insomma, benché importante, ingombrante e - mi si passi l'orrendo termine - puntuale, il tema non si porta sulle spalle l'intero peso del racconto, ma viene anzi valorizzato da scelte linguistiche precise e da uno stile che, pur non essendo così radicale come forse vorrebbe, è senza dubbio meravigliosamente centrato. Così come il romanzo - autobiografico - omonimo di Annie Ernaux da cui è tratto il film riusciva ad essere anche una delicata riflessione sulla rielaborazione del trauma attraverso la scrittura e sui confini da stabilire in questo processo, Audrey Diwan nell'accostarsi ad una vicenda così intima e per giunta realmente vissuta dall'autrice del libro, si pone le domande giuste e le traduce in acute e rispettose scelte di messa in scena. Non è sbagliato l'accostamento con László Nemes: da Il figlio di Saul e Tramonto, la regista francese sembra infatti riprendere non solo la distanza dai corpi e la concezione dello spazio come labirinto, ma anche la ricerca disperata e il disorientamento come spinta essenziale che muove i personaggi; che li fa agire soli contro il mondo, in un indicativo presente eterno come il latino. Ago, agis, agit declinano Anne e le sue amiche, quasi fosse un mantra, una formula magica da ripetere, beffardamente all'unisono. Ché di quei/questi tempi, al contrario, quella per riprendere il possesso del proprio corpo e del proprio futuro è una battaglia da combattere in totale solitudine, senza farsi vedere, senza poter parlare; in silenzio, non si ha neppure il privilegio di urlare dal dolore.

L'événement non è allora un film su una scelta drammatica da compiere, come suggerirebbe il banale titolo italiano, e neppure un atto scopertamente politico come 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Mungiu. È invece, in modo molto semplice ed essenziale, un film di azioni, un film d'azione: un ballo in un pub; una costante e spesso vana ricerca d'aiuto dal futuro (im)possibile padre, dagli amici, dai medici; una violenza continua contro se stessi e il proprio corpo, imposta dal contesto socioculturale come unica via per tornare a vivere la propria vita e a sognare il proprio futuro, riportando le cose al loro posto e al loro tempo. In questo continuo movimento, nessun passo indietro, nessun dilemma, nessun momento di debolezza. Soltanto l'azione solitaria e coraggiosa di un corpo che deve tornare a sanguinare.