TRAMA
Ginny ha sposato in seconde nozze Humpty che lavora nel Luna Park di Coney Island e gli ha portato in dote un figlio decenne con una spiccata tendenza per la piromania. Ginny è però insoddisfatta di quel matrimonio e trova nel bagnino Mickey un uomo colto che possa comprendere anche le sue velleità di attrice. Un giorno però arriva a sconvolgere i fragili equilibri Carolina, figlia di Humpty e fuggita dall’entourage del marito mafioso. Quando Mickey ne fa la conoscenza, Ginny avverte l’imminenza di un pericolo.
RECENSIONI
Ormai i grandi temi attorno ai quali ruota la filmografia recente (e meno recente) di Woody Allen sono noti anche a chi Woody Allen lo conosce solo per le citazioni sui segnalibri. L’incidenza del caso, la tragicità della vita, l’assoluta e disperata mancanza di senso dell’esistenza, la colpa e il peccato, la fragilità delle relazioni umane e via discorrendo. Perché se da un lato appare quantomeno frettolosa e superficiale la teoria secondo la quale il maestro newyorkese girerebbe sempre lo stesso film, dall’altro è vero che il rigore con cui ritornano costantemente le tematiche e le ossessioni a lui care è davvero impressionante. Il tutto poi, viene ovviamente amplificato da un ritmo produttivo di natura eminentemente seriale che certamente contribuisce a dare quel forte senso di continuità narrativa e argomentativa che si ritrova nella sua opera. Insomma, Woody Allen non gira sempre lo stesso film, bensì diversi capitoli di un mastodontico saggio audiovisivo sull’esistenza, iniziato più di mezzo secolo fa. Da qui la necessità di adottare uno stile narrativo trasparente ed immediatamente riconoscibile; da qui il bisogno di costruire (non sempre, ma piuttosto spesso) film, inevitabilmente, a tesi.
In questo, La ruota delle meraviglie non fa eccezione. C’è il peso incontrollabile del caso che incombe sui personaggi («Fate plays a big role. More stuff in life is out of our control than we’d like to admit» dice Mickey) a cui si contrappone il senso di colpa di Ginny, convinta del fatto che le sue disgrazie derivino da responsabilità mancate e scelte sbagliate («I brought my troubles on myself. […] I made a mistake») che la portano a perpetrare in eterno gli stessi crimini e misfatti del passato. C’è la dimensione assolutamente tragica dell’esistenza, dalla quale non vi è via di fuga possibile e c’è la totale insensatezza della vita e degli affetti («It doesn’t make sense because you’re not dealing with sense. You’re dealing with feelings» afferma l’amico di Mickey). C’è, in definitiva, tutta la componente tematica dell’universo alleniano, tutta la sua visione del mondo. Ora, quello di affrontare di petto l’evoluzione di tali argomenti all’interno della sua sterminata filmografia al fine di metterli in relazione con il modo in cui vengono trattati ne La ruota delle meraviglie è un compito che richiederebbe sicuramente un altro spazio e un altro tempo, pena un trattamento per forza di cose superficiale. In questa sede, tutto sommato, ci interessa poco. Meglio allora concentrarsi sugli aspetti di scarto più evidenti e sulle componenti stilistiche che qui, pur ripartendo dal digitale di Café Society (ed era il primo film in cui Allen rinunciava alla pellicola), subiscono un aggiornamento piuttosto forte, come forse non se ne vedevano da tempo nel suo cinema. Ovviamente, tali novità hanno un nome e un cognome: Vittorio Storaro. Perché è lì, nella luce, che si trova la componente più interessante del film. È attraverso la luce curata dal celebre direttore della fotografia (qui alla sua seconda collaborazione con il regista americano dopo, appunto, Café Society) che l’ultimo lavoro di Woody Allen riesce a far emergere i suoi significati più rilevanti.
La ruota delle meraviglie, insomma, è un film sulla luce. Che trasforma gli spazi, che muta i corpi, che annulla la separazione tra luoghi della realtà e luoghi della rappresentazione. È sufficiente la prima inquadratura: un veduta frontale in cui Coney Island è illuminata come se fosse una cartolina di Coney Island, un’immagine promozionale per attirare i turisti (ed è difficile non pensare al sindaco in Caro Diario di Moretti, che vorrebbe far rinascere la sua isola immaginandosi musiche di Morricone e, per l’appunto, «Storaro che cura l’illuminazione e i tramonti di Stromboli»), un paesaggio da sogno. Fin dalla prima immagine ci si trova catapultati in un luogo reale che viene però trasformato nella sua rappresentazione, così perfetta, così gioiosa, così luminosa. Più che a Coney Island, La ruota delle meraviglie sembra essere ambientato su un set che di Coney Island è la copia perfetta. D’altronde, come ripetono sia Mickey che Ginny, la vera vita è altrove: è a Bora Bora, a Cuba, a Rio, è ovunque ma non lì. La penisola newyorkese altro non è che un Paese dei balocchi, un luogo di transizione per Mickey (vi passa solo l’estate lavorando come bagnino), di rifugio per Carolina, ma soprattutto una dolorosa prigione per Ginny, in cui scontare il suo ergastolo autoimposto per le colpe di cui si accusa. A Coney Island insomma, si entra e si esce di scena come su un palcoscenico.
Eccola allora, la dimensione artificiosa e teatrale della vicenda, vero e proprio perno su cui poggia tutta la messa in scena del film e qui immediatamente esibita attraverso la luce. Il fatto che il narratore, Mickey, sia un aspirante drammaturgo (tanto che, a voler azzardare un ulteriore livello interpretativo, nulla ci vieta di pensare a La ruota delle meraviglie come alla rappresentazione di una sua futura opera) arriva dopo, così come il passato da attrice di Ginny. Prima c’è un’immagine, prima c’è la luce, a disegnare un mondo che con la realtà ha solamente un rapporto di somiglianza. Perché in questa Coney Island non ci sono persone, ma personaggi e non ci sono vite, solamente ruoli: la moglie, il marito, il gangster (che rimane fuori campo, ma la cui descrizione corrisponde esattamente al topos di riferimento), gli scagnozzi del gangster, l’amante. Lo sa bene Ginny: lei che avrebbe tanto voluto diventare un’attrice è l’unica che sembra essere consapevole della superficie fittizia in cui (soprav)vive, la sola che, pirandellianamente, è conscia del ruolo in cui è intrappolata (quello di cameriera, ma anche, estendendo il discorso, di moglie). Una perfetta coscienza di sé, dunque: la sua condanna definitiva. Naturale allora che sia lei, di certo il più dolente dei personaggi del film, ad essere colpita maggiormente dalla luce. Nel blu c’è il rimorso, il rimpianto, la malinconia; nel rosso la passione. Quando alla fine Ginny reclama la libertà attraverso una morte da tragedia greca (con tanto di abito di scena), il suo volto viene quasi trasfigurato da una luce bianchissima, un faro che la illumina e la prepara per il primo piano atteso da una vita. Fossimo in un luogo reale, tali soluzioni visive sarebbero fin troppo programmatiche. Ma qui siamo a Coney Island. E in questa Coney Island, osservata attraverso gli occhi di uno scrittore, tutto diventa inevitabilmente simbolo, tutto è metafora. Mickey d’altronde ci aveva avvertito: «as a poet, I use symbols». In questa immediata esplicitazione (e quindi piena consapevolezza) della dimensione teatrale dell’esistenza, sta tutta la tragicità della vita.