Drammatico

LA RAGAZZA CON L’ORECCHINO DI PERLA

Titolo OriginaleGirl with a pearl earring
NazioneGran Bretagna/Lussemburgo
Anno Produzione2003
Durata95'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Delft, 1664. Griet lavora come serva presso la casa del pittore Vermeer. Diverrà la modella del suo dipinto “La ragazza con l’orecchino di perla”.

RECENSIONI

La ragazza con l’orecchino di perla dipinto da Vermeer, definito, per il suo enigmatico sorriso,  la Gioconda del Nord, ispira un romanzo di Tracy Chevalier che costruisce una vicenda fittizia volta a rinnovare il mito del legame tra l’artista e la sua musa ispiratrice. Da questo libro, molto celebrato (non l’ho letto), l’esordiente Webber trae un film figurativamente pretenzioso in cui l’intento di riportare sullo schermo le luci e le atmosfere delle opere del maestro olandese naufraga nel dato meccanico di una rassegna esasperata di tableau vivant: non c’è pietanza sui tavoli che non sia una natura morta, non c’è volto o personaggio che non sembri prelevato a forza dalle tele del pittore, è avvilente la quantità di scene in cui i personaggi sono posizionati davanti alle finestre al fine di ottenere su sé la luce obliqua e il conseguente, tipico chiaroscuro dell’artista di Delft. Il lavoro fotografico è in sé pregevole, così come quello scenografico (ne è responsabile Ben Van Os, per anni, come il costumista Dien Van Straalen, collaboratore di Peter Greenaway e non nuovo a ricostruzioni vermeeriane - mi riferisco a quelle decisamente perverse del chirurgo Van Meegeren in LO ZOO DI VENERE -), ma messo al servizio di un film che non riesce a costruire un solo carattere accettabile e che si muove tra ambientazioni cronologicamente corrette ma senza vita alcuna. Siamo a Delft, ce lo dicono le famose porcellane; Vermeer è un genio, ce lo conferma la suocera del pittore che tiene a sottolineare la meticolosità e il tempo che l’artista dedica ad ogni suo quadro (fu una delle ragioni della sua scarsa prolificità); la Veduta di Delft, notoriamente celebrata dal Proust della Recherche, è un’opera meravigliosa (esiste solo un altro Vermeer in esterni) e, non potendo mancare, la si colloca strategicamente nello studio del satiro mecenate; la servetta (un’attonita Scarlett Johansson) ha animo semplice ma sensibile e nel mutismo generale che caratterizza la sua figura ce lo fa capire attraverso poche, sparse frasi; Johannes Vermeer (un broncio firmato Colin Firth) è un povero cristo tiranneggiato dalla suocera e messo in croce dalla vanità della consorte, con una mandria di pargoli rompiballe (la ricostruzione biografica, per quanto fantasiosa è grosso modo corretta, anche l’utilizzo che JV fa della macchina ottica è verità storica). Il regista, tutto preso dal suo furore manualistico-museale, si concentra soltanto sulla credibilità iconografica della sua ricostruzione: ciò è molto fiammingo da parte sua, peccato che si dimentichi del romanzo da adattare, pagine perse nelle pieghe brunite della pellicola (abolite, dicono, tutte le luci artificiali) che si riducono a pallido pretesto; basta soffermarsi sul rapporto tra i due protagonisti, tirato via e affidato a una scrittura fallimentare, o su come l’artista accetti il ricatto dell’Arte e subisca l’arte del ricatto altrui, per rendersi conto che le idee centrali dello script sono state perentoriamente cancellate, coperte da abbondanti pennellate di colori, i più vari e patinati. Il gioco rappresentativo non basta, insomma, è roba da elegante cortometraggio e alla lunga stucchevole maratona che ha come traguardo il momento in cui l’immagine cinematografica diventa (il) quadro, sequenza che si ricongiunge a quella finale in cui il quadro si proclama ragione d’essere del film: un’istantanea sull’originale vermeeriano che dura qualche secondo e che, ricordandoci la forza dell’originale, suona come un clamoroso autogol

Fare un film sulla genesi di un quadro: esperimento originale e coerente, che si abbandona ad un certo gusto pittorico e lo mantiene fino in fondo (Griet nella neve, Griet incorniciata nel centro della piazza). Che il quadro sia il film stesso? La sguattera che dorme in soffitta, la sguattera che strofina un porticato: ogni sequenza appare partorita da un miscuglio di colori, compreso il miscuglio stesso (oltre il metacinema vi è la metapittura). Tra le righe, spunti sparuti di un simbolismo appena disegnato: le bolle di sapone dell'incipit stendono la fragilità dell'animale umano sulla distesa creativa dell'arte, sfociando nell'acquosa reclusione di un microcosmo che, forse, è l'universo tutto. Destinate ad esplodere: così come il platonismo Griet-Vermeer, racchiuso nella palla di vetro del suo studio, pur senza mai diventare fisico come il sapone. Contatti umani ricercati ma dissolti prima del nascere, omissis della propria fisicità fino a svelare l'arte del corpo [Griet si spoglia della cuffia e Vermeer la osserva: (solo) quello è il loro rapporto sessuale]. Detto delle intenzioni, il film è ben altra cosa: la troppa costruzione fornisce stuzzichini intellettuali senza mai appassionare veramente, il narrato si accartoccia sul colpo gobbo del melodramma. La trattazione della materia ricorda il recente, ben più brutto, PRENDIMI L'ANIMA di Faenza: lì Jung pittore della psiche, la Spielrein musa ispiratrice, la stessa istantanea sul biopic (non un’intera vita ma il suo attimo culminante), la stessa schematizzazione e riduzione all'intreccio sentimentale. Il fatto è che la storia di Vermeer è la storia di ogni padrone e della sua serva, sostituendo le loro figure umane con X ed Y il risultato non sarebbe cambiato; l'omaggio è appassionato -questo sì- ma didattico, l'intuizione è coraggiosa ma lo sviluppo canonico. Colin Firth bruca l'erba come sempre, Scarlett Joahnsson conferma una continua ascesa, scodellando la sua faccia tanto cinematografica da parlare in silenzio (una ventenne che mi piacerebbe incontrare); il doppiaggio italiano sfiora l'associazione a delinquere, fagocitando parole-chiave e condannando la povera Griet a una fastidiosa successione di sospiri (il solo audio potrebbe prestarsi al genere hard). Una sequenza diventa emblematica nella rappresentazione di questo film che è colta pretesa e poco cinema, nozione ma non emozione: Griet sposta una sedia dallo studio di Vermeer con il piglio della scena madre, e la successiva spiegazione è la seguente: 'La sedia era in trappola...'. Lascio ad altri ogni commento.