Drammatico

LA PRIMA NEVE

TRAMA

Dani è nato in Togo ed è arrivato in Italia in fuga dalla guerra in Libia. È ospite di una casa di accoglienza a Pergine, paesino nelle montagne del Trentino, ai piedi della valle dei Mocheni. Ha una figlia di un anno, di cui però non riesce a occuparsi. Dani viene invitato a lavorare nel laboratorio di Pietro, un vecchio falegname e apicoltore della valle, che vive in un maso di montagna insieme alla nuora Elisa e al nipote Michele, un ragazzino di 10 anni la cui irrequietezza colpisce subito Dani. Il padre di Michele è morto da poco, lasciando un grande vuoto nella vita del ragazzino, che vive con conflitto e tensione il rapporto con la madre e cerca invece supporto e amicizia nello zio Fabio.

RECENSIONI

Andrea Segre, dopo Io sono Li, continua a occuparsi di fiction non tralasciando però il documentario d’autore attraverso cui si è formato e che gli ha dato iniziale visibilità. Il regista segue il percorso di Dani, un giovane libico fuggito dal suo paese a causa della guerra e trasferitosi ai piedi della valle dei Mocheni, in Trentino, insieme alla figlia di un anno. Dani deve ambientarsi in un mondo distante anni luce da quello da cui proviene, adattandosi a un microcosmo familiare non propriamente funzionale, dove una giovane vedova deve contenere l’esuberanza del figlio di dieci anni ancora deficitario di una figura di riferimento (nonostante gli sforzi dello zio e, soprattutto, del nonno).

Il film è scandito dal ritmo delle stagioni. Un autunno dai mille colori non fa solo da sfondo al racconto, ma amplifica i contrasti tra i personaggi, immergendoli in una natura che bisogna imparare a domare, perfetto contraltare di un’intimità che deve giungere a maturazione per rendersi comunicativa. Il film punta con molta onestà dritto al cuore, mostrando la nascita di una complicità tra Dani e il bambino e accompagnando con sensibilità il disvelarsi di sentimenti non sempre accettati con adeguata consapevolezza. Dani non riesce a guardare in faccia la figlia perché vede in lei la moglie morta durante il parto. Il bambino incolpa la madre della morte del padre e fatica a trovare una conciliazione.

Due differenti solitudini, accomunate dal dolore per una perdita recente, riescono, grazie a una muta ma solidale frequentazione, a stabilire un contatto profondo. L’aspetto che più convince della visione di Segre è prima di tutto la connotazione geografica. L’estremo nord Italia non è molto frequentato dal cinema e vederlo protagonista con attenzione per i dettagli (l’utilizzo del dialetto, l’assenza di retorica nella descrizione delle piccole comunità di montagna) connota la vicenda con originalità e freschezza.

Ma a regalare verità ai personaggi contribuisce anche la capacità di Segre di guardare in faccia i sentimenti senza nascondersi dietro vezzi autoriali privi di autenticità ed evitando anche tutti i triti luoghi comuni sull’immigrazione, qui dato di fatto e non punto di arrivo di una tesi da appoggiare. Se la scelta si apprezza è però sviluppata inciampando in un difetto comune a molto cinema italiano: il bisogno di spiegare tutto. Non ci sono punti oscuri, sospesi, ambiguità, non detti, lo spettatore viene istruito per capire tutto con eccessiva linearità. Il che rende gli sviluppi incapaci di spiazzare, comunque prevedibili. Solo il finale, in cui i sentimenti esplodono, arriva risolutore ma anche dubbio circa il destino dei personaggi. Stridente invece l’inserto onirico, che manca della necessaria atmosfera di magia per risultare davvero perturbante.