
TRAMA
Paul, giovane fotografo specializzato nel ritrarre volti di uomini nell’istante dell’orgasmo, è raggiunto dalla sorella Camille, che lo porta in ospedale a trovare il padre gravemente malato. Questi finge di non riconoscerlo, causando l’immediata fuga del figlio. Ossessionato dal rifiuto, il giorno dopo Paul si intrufola nella camera del padre agonizzante e inizia a fotografarlo rabbiosamente. Sviluppando le foto, si accorge però che, durante gli scatti, il padre si è svegliato ed ha guardato in macchina. Poco dopo il padre muore. Paul si rifiuta di andare al funerale, ma è disposto ad incontrare Camille che vuole consegnargli una scatola con alcune fotografie fatte dal padre nei suoi viaggi d’affari. Immediatamente prima dell’incontro Camille prende una foto dal suo portafoglio, la infila in una busta sulla quale scrive ‘Paul’ e la mette nella scatola, insieme alle altre.
RECENSIONI
La complessità di questo splendido cortometraggio del 1995 si indovina già dalla trama, una complessità che però, nelle mani di Ozon, si risolve in esemplare limpidezza stilistica. La petite mort è infatti un dramma familiare che evita i ricatti emotivi, senza tuttavia escludere lo spettatore dai sentimenti dei personaggi, dalle loro debolezze o dalle loro ossessioni. Come quella, duplice, nutrita da Paul (un François Delaive di toccante sobrietà) per il padre e per la fotografia. Duplice ma unitaria in realtà: il corto si apre, emblematicamente, sulla foto di Paul neonato, mentre la sua voce over recita: Il giorno della mia nascita mio padre era all'estero per un viaggio d'affari. Mia madre gli inviò la mia foto. Egli rispose: 'Questo mostro non può essere mio figlio, è troppo brutto, deve esserci un errore'. Tuttavia ero proprio io. Così il rifiuto paterno e la rappresentazione fotografica risultano immediatamente e indissolubilmente legati. Paul tenta di cancellare questo trauma originario attraverso la riproduzione di quella 'piccola morte' - bataillanamente l'orgasmo - che è anche prefigurazione di vita: fissando l'istante dell'eiaculazione, Paul vive una rinascita immaginaria in grado di alleviare almeno in parte la sua disperazione, una disperazione che lo sta conducendo all'apatia e all'anaffettività. Ma, ovviamente, l'appagamento immaginario è destinato a scontrarsi con la realtà. Il nuovo incontro - e rinnovato ripudio - col padre non può che riacutizzare il dolore del figlio: il volto crudele del genitore torna a prendere corpo, fino a ricoprire perfino fisicamente (con un ingrandimento fotografico) quello di Paul. Soltanto i suoi occhi sono preservati da questo rovinoso annichilimento, soltanto il suo sguardo sopravvive ad una simile sovrapposizione (piccola sottigliezza: la foto di Paul neonato lo ritrae ad occhi chiusi, sottraendo così il suo sguardo alla condanna paterna). Sicché è proprio alla trasparenza dello sguardo fotografico che Paul affida la sua radicale fantasia di riscatto e l'estremo tentativo di affrancarsi dall'influenza del padre, rifiutando quella logica della menzogna che al contrario gli assicurerebbe l'accesso ai sentimenti familiari e borghesi. Decisivo in questo senso il prefinale, con Camille (una Camille Japy perfettamente in parte) che infila, tanto subdolamente quanto affettuosamente, la foto che la ritrae tra le braccia del padre per far credere a Paul che il bambino amorevolmente cullato sia proprio lui. E il finale è in qualche modo la conseguenza del gesto di Camille: credendo alla menzogna della sorella e pensando di vedersi abbracciato e amato dal padre, Paul ne recupera l'affetto, penetrando in quell'universo familiare e borghese da cui si era fino ad allora tenuto alla larga, un universo in cui non si danno sentimenti puri, emozioni non inquinate da determinazioni sociali e culturali. Provare qualcosa significa essere già prigionieri di un condizionamento ideologico (quindi basato sulla falsa coscienza), i sentimenti sono strumenti di potere: qui Ozon mostra una lucidità compiutamente fassbinderiana nel trattamento della materia. La conclusione è di un pessimismo sottilmente irrecuperabile: quella che a prima vista sembra una nota di speranza in realtà è la fredda e definitiva chiusura di ogni orizzonte esistenziale autonomo. Come le porte dell'ascensore che si chiudono inesorabilmente in Martha di Fassbinder, la soggettiva finale di Paul, con i finestrini del treno che scorrono indistintamente davanti ai suoi occhi, segna la normalizzazione uniformante del suo sentire. Il sorriso si paga a caro prezzo, semplicemente arrendendosi. Colpisce infine il controllato eclettismo dello stile ozoniano che ne La petite mort assume la grammatica fotografica all'interno della sintassi cinematografica con grande fluidità, rinunciando ad assegnare ruoli e funzioni antitetici ai due linguaggi e attribuendo loro, al contrario, pari dignità espressiva e rilevanza estetica. Arrivando addirittura a fonderli nella sequenza centrale (cronologicamente e tematicamente) del corto, quella in cui Paul 'scompone' visivamente il corpo del padre sul letto d'ospedale, inquadrandone dei particolari (il pube, il torace, un braccio, una spalla) in rabbiose soggettive 'cinefotografiche'. Luci letteralmente miracolose di Yorick Le Saux.
