Commedia, Sala

LA PASSIONE

TRAMA

Passati cinquant’anni, essere un regista emergente diventa un problema. Ne sa qualcosa Gianni Dubois, che non fa un film da anni, e adesso che avrebbe la possibilità di dirigere una giovane stella della tv non riesce nemmeno a farsi venire in mente una storia. Come se non bastasse, una perdita nel suo appartamento in Toscana ha rovinato un affresco del Cinquecento nella chiesetta adiacente. Per evitare una denuncia e una pessima figura, Gianni deve accettare la bizzarra proposta del sindaco del paese: dirigere la sacra rappresentazione del venerdì santo in cambio dell’impunità. Così si ritrova a passare una settimana nella Toscana più profonda.

RECENSIONI


L’ultima opera di Carlo Mazzacurati, regista discontinuo e defilato del panorama cinematografico italiano contemporaneo (un po’ come il suo alter-ego sullo schermo interpretato da Silvio Orlando), si propone come una commedia tout-court. L’idea di partenza non brilla per originalità (un regista deve imbastire uno spettacolo teatrale convincente in pochissimi giorni), ma ha dalla sua l’efficacia di tutti gli evergreen: la solidità, data da contrasti forti accentuati dalla corsa contro il tempo. Purtroppo, però, il film di Mazzacurati non riesce a dare nuova linfa all’usura del soggetto, vittima com’è di un trattamento disomogeneo in cui predomina il luogo comune sulla verità, la carineria sulle ombre e la gag sulla visione organica. Il presepe umano messo in scena è infatti la solita sfilata di macchiette, più o meno riuscite, programmaticamente costruite per indurre alla risata. Il gioco, però, è così scoperto da risultare prevedibile, a causa di una sceneggiatura che pretende di amare tutti i personaggi facendone figurine unidimensionali prive di spessore: la barista bella e triste, l’attrice che fa la diva, il produttore arrogante, l’attorucolo vanitoso ma privo di talento, l’ex carcerato di buon cuore, l’affittacamere esuberante, oltre alla solita folla vernacolare dalla battuta pronta. Certo, qualche momento colpisce nel segno (l’originale escamotage trovato da Battiston per supplire alla fotocopiatrice rotta, alcuni fulminanti botta e risposta), ma la voglia di compiacere in modo facile un pubblico ampio toglie autenticità al sentire dei personaggi, protagonista patibolare e frignone in primis. Per tacere del finale consolatorio in cui, inspiegabilmente, ogni tassello trova il suo improbabile incastro. L’aspetto migliore è nelle interpretazioni: Silvio Orlando fa come al solito del suo meglio, nonostante il suo regista in odore di redenzione non abbia profondità; Giuseppe Battiston è oramai un mattatore, ma andrebbe forse contenuto per calibrarne l’efficacia, Kasia Smutniak si conferma volto intenso, Corrado Guzzanti eccede (ma il pubblico ride), Marco Messeri ribadisce l’approccio rude e schietto di toscano della porta accanto e Stefania Sandrelli ha un bel taglio di capelli. Quanto a Cristiana Capotondi, è ancora una volta molto spontanea, ma vittima più degli altri di un personaggio a senso unico. La cena con il regista, che conclude la sua presenza sullo schermo, comincia scoppiettante finendo però in modo becero. Si può, ancora oggi, uscire di scena alzandosi da tavola e gridando “ma vaffanculo!!!”. Roba che neanche più il cine-panettone!!!