TRAMA
In un paese latinoamericano da poco tornato alla democrazia, 15 anni dopo essere stata seviziata e torturata dalla polizia segreta, Paulina Escobar crede di riconoscere in un medico. uno dei torturatori. Lo cattura, lo immobilizza, lo processa, affidandone la difesa al proprio perplesso marito avvocato.
RECENSIONI
L'atlante personale di Roman Polanski si nasconde dietro un'architettura ingannevole e apparentemente granitica, si insinua in un sottobosco vivido e fertile, sotto la robusta crosta de La morte e la fanciulla, che, prima di ogni altra cosa, comunica la sua evidente parentela con altri testi e altre storie. Il film ostenta fin dal titolo il suo riferimento artistico (l'omonimo quartetto del 1824 di Schubert), monolito tematico, coercitivo e carico di rimandi interdisciplinari, narrativamente ancorato ad una piéce di Ariel Dorfman, la quale a sua volta racconta una storia che ha molto a che fare con la Grande Storia del Novecento e con gli incubi totalitari che lo hanno segnato.
Nonostante tutto ciò, i tentativi interpretativi strettamente legati ai testi a cui il film rimanda, risultano fin troppo semplici, fin troppo evidenti, fin troppo immediati. Spunta il sospetto che, dietro una costruzione così stratificata di suggestioni culturali, ci sia invece la volontà di far emergere un'autorialità che, proprio perché nascosta e camuffata, agisce in modo più efficace che in altri film: La morte e la fanciulla, dunque, come compendio della poetica di Roman Polanski, un raccoglitore ordinato del suo cinema e del suo linguaggio.
Non è un caso se all'interno del film è possibile scorgere tutti i temi più cari all'autore di Cul-de-sac: dal rapporto cannibale e cangiante tra vittima e carnefice, a quello più intimo e privato dell'individuo con l'elaborazione del proprio trauma; dalla ricorsiva contrapposizione/fusione di arte e vita, alla confusione tra realtà e immaginazione; dalla riflessione sulla natura assoluta e ancestrale del male al rapporto tra la nostra Storia e la sua storia.
Attraverso questa rete di rimandi alle opere precedenti ritroviamo, nel duello tra Miranda e Paulina, il gioco al massacro tra criminali e borghesi di Cul-de-sac; nel lacerante passato della protagonista, la patologica e mancata elaborazione del trauma della Deneuve di Repulsion; nel dialogo con la cultura alta, basculante tra il classicismo artistico e quello musicale, il ricordo dell'umanissimo, terreno adattamento del Macbeth del 1971; nella messa in scena della vendetta, la rappresentazione altrettanto artefatta dell'incubo in carne ed ossa de L'inquilino del terzo piano; nella messa in scena delle profondità primitive dell'orrore, vissute attraverso la soggettività di una donna, riviviamo la discesa agli inferi di Rosemary's Baby; infine, dal passato della donna, costellato da torture che ricordano da vicino i totalitarismi novecenteschi, nasce l'embrione de Il pianista, il film sull'olocausto che, dietro la ripugnanza dei campi nazifascisti, nasconde il dolore della morte della madre del regista deportata e uccisa dai tedeschi.
La morte e la fanciulla si attesta allora come un'opera dall'amplissimo portato culturale e dalla convergente tendenza alla ramificazione col passato e col futuro cinematografico del suo regista. Non solo: il film ambisce anche a riflettere sul cinema e sul genere di riferimento: dietro l'attaccamento alla realtà e agli orrori della storia, infatti, vi è un meccanismo narrativo che mira a riportare alla luce quello di molti noir degli anni Quaranta. La messa in scena della protagonista, la paranoica palingenesi capovolta del trauma del passato, hanno molto a che fare con la riproposizione cinematografica del racconto di fate, di un modello narrativo in bilico tra la realtà e l'immaginazione tipico del noir onirico di matrice mitteleuropea, in cui l'eroe davanti all'impossibilità della soddisfazione dei propri desideri nel mondo reale reagisce con la fuga nel fantastico e nella rappresentazione. Questo meccanismo collega La morte e la fanciulla a noir classici come Vertigine di Otto Preminger o La donna del ritratto di Fritz Lang.

Il testo teatrale del cileno Ariel Dorfman, a tre personaggi (è giunto fino a Broadway nel 1992, con Richard Dreyfuss, Glenn Close e Gene Hackman, sotto la direzione di Mike Nichols), condotto sulle note del quartetto per archi di Schubert omonimo, offre a Polanski la possibilità per una nuova digressione sui suoi stilemi/temi preferiti: la narrazione mantenuta su di un filo di mistero e di ambiguità (che era da portare nella tomba: Polanski, a differenza di Dorfman, svela troppe cose sulla vera identità di Gerardo, quando il fulcro è un altro, vale a dire la metafora di un paese in ginocchio); l’agghiacciante realismo deformato nel grottesco attraverso la spietata lucidità dell’incubo; Tempo e Spazio ben definiti, claustrofobici, con pochi personaggi nel gioco al massacro; la violenza fatta prima di tutto allo spettatore. Fra sadismo subito e riconsegnato al mittente, è paradossale che tutti e tre i personaggi siano infine vittime del Destino, del Caso (il rincontro), di una vita crudele (il carnefice è vittima; la vittima carnefice: più quest’ultima è spietata e folle, più se ne comprende il dolore, la rabbia), impegnati in una lotta per il Potere che li rende figure simboliche di una condizione storico-politica del Paese piegato da anni di soprusi. Sigourney Weaver, abbonata al ruolo di donna forte e indurita, è corrotta dal Male, dalla sete di vendetta e l’opera ha la forma del filo spinato (sotto perenne pioggia), teso e implacabile, con poche soste ironiche, immancabilmente amare (Paulina che si rivolge al marito impalato dicendo “Certo, è la Legge”; Gerardo che dice: “Sì, mia moglie è folle, ma lo è tutto il paese”; la scena in cui lei insegna l’umiliazione assistendo la vittima nell’orinare). Grandi interpreti.
