TRAMA
Cristi, un ispettore di polizia di Bucarest, s’imbarca per l’isola di Gomera, nelle Canarie, per imparare in fretta il Silbo, un linguaggio fischiato che i contadini del luogo utilizzavano tradizionalmente per parlarsi da un luogo isolato all’altro. Ma il poliziotto è determinato a utilizzare quel codice, segreto ai più, per ben altro scopo: liberare un mafioso rumeno dalla prigione ed entrare in possesso di un’ingente somma di soldi sporchi.
RECENSIONI
Che cos’è un dispositivo? Secondo Agamben qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, intercettare, modellare le opinioni e i discorsi. Il concetto di “dispositivo” è una nozione chiave per decifrare il cinema e il cinema è consapevole di se stesso come dispositivo di visione del mondo: non conta tanto cosa racconta ma come. Questo diventa evidente di fronte a un film come La gomera di Corneliu Porumboiu, costruito attorno a una trama di puro “intrattenimento”, che ruota, programmaticamente, attorno a quelle che sono le costanti del noir: un poliziotto ambiguo e corrotto, una femme fatale, un’intricata rete criminale. Una serie di elementi che il regista adopera per comporre un gioco enigmistico, un film-puzzle che è allo stesso tempo un meccanismo di inganno: se da un lato disperde la struttura in tanti pezzi da ricomporre (istigando chi guarda a tentare incroci, cercare echi o fare attenzione alle coincidenze), dall’altro le combinazione di situazioni e di spostamenti di personaggi-pedine su una scacchiera-intreccio non rivelano altro che dietro un falso c’è sempre un altro falso, dietro una maschera non c’è altro che un’altra maschera (ogni personaggio è costretto a mentire e “interpretare una parte” per raggiungere i propri scopi e poter sopravvivere).
Ciò che rende interessante il lavoro di Porumboiu è la volontà di esibire, e così facendo permettere di contemplare, l’essenza del congegno: le esche o i mcguffin, disseminati qua e la nelle anse del racconto, non hanno più nulla a che vedere con il produrre, sollecitare, rafforzare il coinvolgimento dello spettatore, ma neppure servono a confonderlo, depistarlo, disorientarlo: sono ingranaggi che vengono mostrati nella loro nudità per poter così ammirare la meccanica della macchina spettacolare. Lo stesso discorso vale per i personaggi, talmente basici da risultare quasi caricaturali: nulla di più, come già accennato, che delle pedine, delle citazioni, in un gioco di sceneggiatura puramente formale. Un’operazione di denudamento che si fa addirittura lampante nella resa dei conti finale, che avviene, non casualmente, su un set abbandonato. La gomera, però, non è soltanto un gioco tautologico; come ogni dispositivo (tornando quindi da dove abbiamo cominciato) offre anche una visione del mondo, o, quanto meno, dello scenario mediatico contemporaneo: tra le pieghe del discorso emerge, infatti, una riflessione critica potente attorno all’attuale società della sorveglianza (sorta di moderno diabolico dottor Mabuse) e della moltiplicazione delle immagini di controllo che stanno mettendo sotto sequestro il reale rendendolo ininterrottamente ipervisibile.