Drammatico

LA FIERA DELLA VANITÀ

Titolo OriginaleVanity Fair
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2004
Durata137'
Tratto dadal romanzo di W. M. Tackeray
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Orfana fin da piccola, Becky Sharp desidera una vita di lusso ed è decisa a dare la scalata all’alta società dell’Inghilterra vittoriana.

RECENSIONI

La riduzione filmica dei classici della letteratura porta sempre con sé il sospetto della maniera o della piatta accademia: se a questo rischio ne aggiungiamo un altro (la regista Mira Nair) si comprende bene come le premesse per questo Thackeray in celluloide non fossero le più rosee. Invece… Invece VANITY FAIR è un adattamento solido, elegante senza essere patinato, che racconta le ascese sociali, le discese ardite e le risalite della sua protagonista con un certo brio e limitando, per quanto possibile, le pesantezze che certi ponderosi romanzi impongono anche alle loro più impeccabili messe in immagini.
Mira Nair, indiana, forte di un legame elettivo con lo scrittore inglese (che nacque infatti a Calcutta), riesce a rendere piuttosto adeguatamente le sfaccettature e le ambiguità dei suoi personaggi, il veleno degli intrighi di salotto, le schermaglie amorose e le alterne fortune di un pugno di nobili e nobilotti che, per quanto a tratti si dimostrino aperti e liberali, quando si tratta del rango si guardano bene dal metterlo in discussione e vi si abbarbicano con una foga spietata, furiosa al punto da spazzare via tutto: passioni vere, amori, legami parentali, amicizie apparentemente indissolubili. Se la seconda parte conosce un certo calo (riscattato dal divertente balletto indiano che sembra una coreografia kitsch di Madonna) questo non intacca il risultato finale cui contribuiscono, oltre alla misurata sceneggiatura, i comprimari di lusso (Gabriel Byrne, Bob Hoskins, Rhys Ifans tra gli altri) e i facilmente oscarizzabili costumi&scenografie.

La regista Mira Nair, Leone d'Oro a Venezia nel 2001 con "Monsoon Wedding", conferisce al romanzo di William Makepeace Thackeray un'inaspettata freschezza. Sarà perché il tema dell'arrampicatrice sociale, pardon "scalatrice" (come sottolineato in una battuta del film), è sempre attuale (a quando una versione trash aggiornata ai tempi ambientata tra veline e calciatori?), ma anche per l'abilità della regista indiana nel destreggiarsi tra i complessi eventi della narrazione, evitando uno stile lezioso che in altre mani avrebbe potuto affievolire la vitalità del racconto. Gran parte del merito è però della sceneggiatura a tre di Matthew Faulk, Mark Skeet e Julian Fellowes (giustamente premiato con l'Oscar per lo splendido copione di "Gosford Park"), capace di muoversi in un mondo dove gli unici elementi importanti sono il lignaggio e la pecunia ed efficace nel mantenere sempre alta l'attenzione sui personaggi, dosando con arguzia colpi di scena e battute salaci e non tralasciando gli eventi storici, che in più di un'occasione modificano il destino dei personaggi. La forza dello script è nel non rivelare tutto subito, creando una sorta di apnea narrativa in cui i fatti accadono fuori scena e vengono esplicitati nelle conseguenze che determinano. Riuscita anche la non facile caratterizzazione della protagonista: cinica calcolatrice o ragazza solare e affascinante dalla vivacità contagiosa? Il film non la giudica e la mostra nelle sue molteplici sfaccettature, grazie a un'ironia che evita noiosi e poco attendibili sensi unici. Perfetto il cast, dai comprimari di lusso (Bob Hoskins, Jim Broadbent, Gabriel Byrne) alla luminosa Reese Whiterspoon, vera e propria diva in America, un volto tra i tanti da noi (i due "Legally Blond" in Italia non hanno comprensibilmente sfondato) e icona dell'arrivismo senza scrupoli fin dai tempi del sottovalutato "Election" di Alexander Payne.

Dal romanzo di Thackeray, già portato sullo schermo nel 1935 da Rouben Mamoulian (Becky Sharp, con Mirian Hopkins), un’opera corretta, a tratti pimpante, dalle fastose scenografie e dagli impeccabili costumi, laccata al punto giusto, pronta a concorrere agli Oscar 2005 in tutte le categorie minori. Come era ampiamente prevedibile, la Nair si concentra sulla figura dell’eroina, facendola assurgere a paradigma di un protofemminismo in divenire – per arrivismo e cinismo pare un’anticipazione della Scarlett O’Hara di Via col vento – e declassa l’obiettivo primario del romanzone inglese (la dettagliata e spietata demistificazione della società inglese del XVIII secolo, tutta ostentazione, rispetto dell’etichetta, difesa a denti stretti dello status quo). Il cast, specie i caratteristi, si difende bene, eccettuata forse la protagonista, che, riproponendo il catalogo di smorfie e singulti già sfoggiati in Legally Blonde, trasforma lo sfaccettato e lacerato personaggio forgiato dallo scrittore di Barry Lyndon in una sdegnosa arrampicatrice sociale capace di incomprensibili e repentini atti di altruismo.
Ciò che forse manca all’intera operazione è quel quid di passione che da solo avrebbe potuto far reggere l’impalcatura e mantenere vivo l’interesse per la sorte dei personaggi per più di un’ora: invece, allo scoccare del sessantunesimo minuto o giù di lì il racconto si affloscia, alcuni episodi sono inutilmente dilatati ed altri incomprensibilmente risolti in poche battute. Se gli autori avessero pensato di più al cinema e meno alla capziosa questione della fedeltà al testo avrebbero forse scontentato i docenti di Oxford, ma l’opera nel suo insieme ne avrebbe tratto giovamento.