Drammatico

LA FAMIGLIA SAVAGE

Titolo OriginaleThe Savages
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2007
Durata114'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Wendy e Jon Savage sono costretti ad un periodo di forzata vicinanza quando il padre Lenny, improvvisamente vedovo per la seconda volta ed inaspettatamente senile, necessita delle loro cure e attenzioni.

RECENSIONI

Che quella americana sia, da qualche tempo, soprattutto una questione familiare è fenomeno che abbiamo messo in chiara evidenza, soprattutto alla luce del canone restituitoci dal cinema indipendente. Perché sia solo quello indie a prediligere questa tematica (nel suo aspetto patologico, per lo più: crisi, assenze, mancanze, conflitti, abdicazione ai ruoli) è interrogativo che trova risposta nei meccanismi produttivi: il grosso budget è oramai, e in maniera consolidata, affidato al progetto visivo-effettistico che garantisce (o dovrebbe garantire) un ritorno proporzionale all'investimento fatto; è normale dunque che le piccole produzioni si affidino alla scrittura, alla constatazione dei fatti, alla riflessione sulle dinamiche sociali, laddove, solo tre decenni fa, queste erano tematiche trasversali, comuni a tutte le tipologie produttive. Quello indipendente è un cinema intimista e minimale, dunque, che si muove quasi sempre sul doppio registro (mutuato, ça va sans dire, dalle tendenze letterarie - in atto, certo, ma con radici affondate negli anni Settanta -) brillante e amaro, un cinema di chiara marca teatrale, un cinema che poggia in maniera pressoché integrale sulla drammaturgia, generalmente premiato dalla critica d'oltreoceano (e non è un caso che gli ultimi Oscar alle sceneggiature originali siano stati tutti destinati a opere del genere, essendo divenuta, quella dell'original screenplay, quasi una zona franca, esclusivo appannaggio delle low production).
Ecco allora che quello della Jenkins si afferma come film di scrittura finissima e molto calibrata, in cui si dosano ad arte tutte le componenti, senza scivoloni nel facile melodramma: sono passati del resto ben nove anni dal precedente della regista e sceneggiatrice, il piccolo fenomeno L'altra faccia di Beverly Hills, periodo che ci dice di un intenso lavoro di stesura. E in cui l'ironia e il sarcasmo confinano col Vero, dove due fratelli che sono riusciti a trincerare le proprie vite allontanandosi da un passato drammatico non meglio definito, sono richiamati nell'inferno domestico che avevano abbandonato, costretti ad accudire un padre che li ha sempre trascurati: è tempo di Dolore, di Pietà, è (soprattutto) tempo di Regressione.

La morte aleggia sull'intero film (morte del genitore, del passato, del trauma) innestandosi nella dialettica corrotta dei sentimenti familiari, gli stessi di cui i due protagonisti principali (Linney e Hoffman, meravigliosi) portano i segni all'esterno (caratteri drammaticamente irrisolti: Wendy che non riesce ad essere altro che l'amante di un uomo sposato, Jon che distrugge lucidamente la sua love story solo per il modo degradato in cui ha elaborato il concetto dell'istituzione matrimoniale). È davvero lodevole la cura con la quale l'autrice tratteggia i rapporti tra il padre e i due fratelli [1]: una violenza sottaciuta ma percepibile e - dietro un amore che è quello fatale, e quasi patito, dettato dal sangue - uno strisciante antagonismo che esplode nella bella scena dell'alterco in automobile, che riproduce, nello spazio ristretto e inevitabilmente intimo dell'abitacolo, il senso pieno della frantumazione del nucleo familiare che lo abita. I figli si azzannano (il titolo originale, come il film, si propone in doppia lettura - I selvaggi - recando in sé il germe della consapevole trattazione del topos, come vedremo) mentre il padre, principio emanatore del caos che abita le loro vite passate e presenti, rimuove tutto (responsabilità comprese) rovesciando la realtà e leggendo, lui demente, le persone che lo circondano come pazzi incomprensibili, con un effetto di amarissimo disincanto (risate a denti stretti).
Intelligente e per niente appiccicaticcia, poi, è la patina "meta" che ricopre l'intero dipanarsi della vicenda e che si concretizza in una serie di rimandi-riferimenti che, oltre a scorrere come solido sottotesto, servono entrambi i filoni in gioco (la commedia, il dramma): innanzi tutto la scelta identitaria dei protagonisti (che, ricordiamolo, sono un'aspirante drammaturga e un professore di letteratura - a dire: Il Testo & La Critica, decodifica offerta nel finale in cui i fratelli assistono alla messa in scena del lavoro autobiografico di Wendy e in cui vediamo entrambe le funzioni in atto, razionalmente ed emotivamente -); i riferimenti continui al teatro, di Brecht (con tanto di schema alla lavagna) o al fatto che, lo dice Jon, «Non siamo in un dramma di Sam Shepard» (altro drammaturgo che ha applicato in molti casi la forma del family-play, ma con connotazioni soffocanti e dark, e in cui la figura paterna - per tutti: i capolavori A lie of the mind e Fool for love - assume spesso e volentieri fattezze luciferine: non è questo il nostro caso, sembra dirci Jenkins); la paura dell'inciampo nel cliché (tutta la scena nel motel); la rivendicazione spudorata di una sostanza dolorosa che pulsa e puzza (il proprio intimo strazio lo si scrive sul muro, con la merda) e per la quale non c'è cura; il conseguente, consapevole rifiuto della psicoanalisi (e dell'abusato modello dello psicodramma) in quanto subdola mascherata che sfrutta il tormento per un vacuo compiacimento per il quale non c'è più tempo o voglia («Questa è la vita vera»: ancora il critico Jon che conduce tutto il gioco della fabula dalla sua prospettiva metatestuale di uomo di lettere, punteggiandolo con osservazioni che riguardano la vicenda narrata da un lato e il metodo narrativo dall'altro); i suggerimenti di percorsi di racconto possibili e non battuti (la storia tra Wendy e l'infermiere viene adombrata solo per essere smentita).
È un film apparentemente semplice, e in questa apparenza fa esplodere la magia del suo sotterraneo, complesso impianto: non è soltanto una riflessione (l'ennesima) sul disadattamento vissuto nel nucleo familiare, è anche un acuto saggio su una tematica (e un archetipo) e le modalità espressive utilizzate per rappresentarla (/o): se la Famiglia è il tema ecco cosa può succedere quando si decide di metterlo in scena, sembra dirci l'autrice. È, soprattutto, quindi, un lavoro che mescola arditamente e felicemente due piani, e lo fa senza alcuna forzatura, camminando su un filo pericoloso, senza mai perdere l'equilibrio.

[1] La caratura della scrittura emerge, come sempre accade, dai dettagli: si prenda il momento impagabile (e fulmineo: può sfuggire) in cui Jon, dopo aver spiegato alla sorella che il caos del suo salotto ha una sua logica, si accorge della presenza di una tazza su un libro; l'uomo la solleva, si guarda attorno e conclude, evidentemente, che la logica del suo caos è davvero stringente: la tazza non può che restare lì. La ripone nel medesimo posto.