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TRAMA
Gilles tradisce la devota moglie Elise con la sorella di lei, Victorine. Quando Elise scopre la tresca è decisa solo a non perdere Gilles…
RECENSIONI
Tra giorni che si susseguono uguali Elisa impara ad accettare il tradimento del marito reprimendo fino a un limite intollerabile l’impulso a ribellarsi e nutrendo la segreta speranza che verrà il tempo in cui tutto tornerà com’era: la storia va a narrare con puntualità e discreta introspezione, la vita di questa famiglia inquadrando il racconto dei suoi momenti quotidiani in una cornice quasi compiaciuta da un punto di vista figurativo ma il cui dato estetizzante - ed è qui l’elemento di interesse - viene sconfessato spesso e volentieri da quello straripante dello squallore di una vita di provincia imbrigliata dalla chiusura mentale e da dinamiche ottuse (la donna viene umiliata persino dal prete confessore). Fonteyne, dopo il mediocre UNE LIASON PORNOGRAFIQUE, riesce a ben delineare la convivenza tra i due coniugi e la loro grottesca complicità che solo nella piena accettazione del triangolo trova il varco per una comunicazione altrimenti impossibile. A una prima parte, la migliore, composta da sequenze quasi mute, segue uno sviluppo delle vicende più convulso, condotto in maniera meno equilibrata e che porterà, tra lacrime silenziose e sofferenza repressa, all’inevitabile, tragico epilogo. Bravissima la Devos, attrice in ascesa inarrestabile, che dipinge con tinte azzeccate il complesso personaggio di Elise, “una donna sprovveduta, senza orgoglio, senza filosofia” (così il regista).
Donna al bivio per il francese Fonteyne, che maneggia uno script classico (ci risiamo: questione di corna...) e lo srotola con godibili sfumature personali: nella suddivisione di spazi e tempi del racconto e nella prodezza stilistica sono da ricercarsi i guizzi maggiori – elegante la sequenza del bacio adulterino: lei è in giardino, la sorella si dirige fuori campo, lui la segue e non vediamo più nulla. Qualche abbinamento di un secolo fa (sesso-violenza), ricomposizione di quiete appena apparente, di nuovo tormento femminile: è soprattutto la storia di un pozzo senza fondo, che scova nel (tentato?) suicidio il tragico acme. La sequenza ultima viene colpita da rovesciamento: una chiusa estraniante, dove al colmo di tanto dolore un cesto di bucato (ergo: il quotidiano) diventa lacerante ed insopportabile tanto da innescare il gesto estremo. Emmanuelle Devos (splendida come in ROIS ET REINE: l’attrice di Venezia 61) conosce un istante di ascesi: dritta contro il suolo oppure in volo verso il Cielo? Un’ombra di velata cristologia: dopo la via crucis si guadagna il Paradiso? Niente affatto: chiamate il marito!, si distingue nel congelato vocio dopo il fattaccio. Il marito: dunque essa è la donna di Gilles, ancora.
Dopo il riuscito "Una relazione privata", che valse alla protagonista Nathalie Baye la Coppa Volpi a Venezia nel 1999, Frederic Fonteyne torna a scandagliare l'intrico dei sentimenti. Lo spunto per questa pessimistica riflessione sul rapporto a due è l'omonimo romanzo di Madeleine Bourdouxhe, ancora inedito in Italia, in cui si descrive il non facile menage di una coppia sposata con due figli. La vicenda si svolge nella anni Trenta nell'ambiente operaio: lei è una casalinga, lui lavora agli altoforni e rincasa spesso tardi. Nella donna si insinua il tarlo della gelosia nei confronti della sorella, giovane e bella. Quando i dubbi diventano certezze la protagonista accetterà qualsiasi umiliazione pur di tenersi stretto il marito, fino a una presa di coscienza dagli esiti distruttivi. Il regista belga riduce al minimo i dialoghi e indaga con la macchina da presa nei silenzi e negli sguardi dei personaggi: allusivi, speranzosi, pieni di rabbia, bisognosi d'amore, accesi di desiderio, offuscati dalla follia. È questo l'aspetto più interessante della regia di Fonteyne, che ha un incedere quasi virtuosistico nel rendere per immagini il non detto. Convince meno laddove è la parola ad essere protagonista: i quadretti familiari con i figli (che appaiono e scompaiono a seconda delle esigenze del copione), la caricaturale insensibilità del marito e i suoi assurdi sfoghi con la moglie, ma anche le scene di sesso, in cui l'irrazionalità del legame è esplicitata in una messa in scena che sa di fasullo. Sta di fatto che il film, lungi dall'appassionare, si dilunga tra prolissità e poca verve e non riesce a sostanziare (la colpa è anche della sceneggiatura) il rapporto della protagonista con un uomo rozzo, disumano e psicopatico. Quasi come in un thriller americano il moltiplicarsi dei finali rallenta inutilmente l'epilogo. Brave le interpreti femminili, sia la protagonista Emmanuelle Devos che la graziosa Laura Smet (figlia di Nathalie Baye); un po' eccessiva la foga con cui Clovis Cornillac trasmette l'ossessione del suo amore.
Calzoni appesi ad asciugare, una tazza di caffè rovesciata sul tavolo, il pavimento da lavare, l’orto ghiacciato, un abito da rammendare, la ciclica fatica dell’umile vita quotidiana, un giardino in fiore. Sono questi, ed altri ancora, i protagonisti nient’affatto secondari del film: pittura dell’ordinario nella quale ardono fino a consumarsi, come sotto braci silenziose, i fuochi della passione, del sentimento, della vita stessa.
Fonteyne trae ottimo profitto dalla poetica dei connazionali Dardenne, che già ha affascinato il coetaneo parigino Sebastien Lifshitz (ottimo segno, che la generazione dei non-più-giovani e quasi-maturi si volga anche ad essi, oltre che a più seducenti modelli transatlantici), e affina la propria arte rispetto a Una relazione privata, già molto interessante: la realtà parla da sola, senza bisogno di inutili didascalie; i gesti sono avari, le parole poche. Nel non detto e nel non visto dobbiamo frugare, instancabilmente, per cogliere frammenti di senso, e là sono i momenti migliori del film; i più incerti, quando è in scena il marito, meccanico e frivolo motore della vicenda.
La storia, nelle mani di un regista meno avvertito, si sarebbe probabilmente trasformata in un insulso feuilleton sentimentale o in una ridicola pochade erotica; Fonteyne non lascia cadere neppure una delle implicazioni espressive in essa disseminate, e le valorizza con intelligenza rinunciando all’enfasi (decisivo, in tal senso, l’uso di controscene invariabilmente azzeccate) in favore di una minuziosa scansione drammatica, ove le pulsazioni affettive della protagonista conoscono un’indagine di spessore inusitato. Indimenticabile la scena finale, il piano di visione ruotato di centottanta gradi e l’immagine fuori fuoco: un gesto estremo che è insieme sogno e netta cesura, con Elisa (la fenomenale Emmanuelle Devos) che cade verso terra librandosi in alto, finalmente sciolta – e dunque alleggerita – dalla gravosa illusione per la quale aveva temuto e sofferto, atteso e lottato; e che, una volta richiamata in vita, le ha rivelato poco a poco il proprio volto d’orrore, fatto d’ombra e di sabbia.