PRESENTAZIONE DEL LIBRO
Nel 1895 i fratelli Lumière filmano l’uscita degli operai dalla loro fabbrica a Lione. Il cinema inizia dal lavoro. Negli ultimi anni è tornato a descriverlo: nel Duemila, e in particolare dal 2008 con lo scoppio della crisi economica, i registi italiani, europei e americani ricominciano a riflettere su questo grande tema. I licenziamenti, la disoccupazione, la difficoltà di trovare un nuovo impiego. Le figure deboli come le donne e i precari. Il libro è una mappa del cinema sul lavoro nei nostri anni: da Ken Loach a Laurent Cantet, dai fratelli Dardenne a Lars von Trier, fa il punto su come i registi di oggi trattano il lavoro e il lavoro che non c’è. Da film manifesto come Full Monty alle provocazioni estreme come Il grande capo (foto), passando per la strada italiana di Smetto quando voglio. In sei capitoli divisi per temi La dissolvenza del lavoro analizza oltre cinquanta titoli, decifrando lo stile degli autori: dal realismo sociale di Loach al cinema hollywoodiano de Il diavolo veste Prada. Dalla commedia alla tragedia, dal lieto fine al pugno nello stomaco. Una bussola per orientarsi nel cinema del nostro tempo difficile: colpito dalla disoccupazione, ma illuminato da grandi opere.
Emanuele Di Nicola, giornalista professionista e critico cinematografico, è redattore della rivista di cinema “Gli Spietati”. Collabora con la Sapienza Università di Roma per la realizzazione di seminari, scrive su varie testate e tiene lezioni sui maggiori registi contemporanei.
Il tema è attuale, stringente, eppure già storicizzato, tuttavia ancora senza uscita: la crisi del mondo del lavoro. “Crisi e disoccupazione attraverso il cinema”, così sintetizza Emanuele Di Nicola la rappresentazione di quel mondo in immagine narrativa; “La dissolvenza del lavoro” intitola il suo libro, in un gioco di parole a doppio taglio che mette insieme le due cose: il fascino del cinema, la beffa della realtà. Si potrebbero infatti notare immediatamente un paio di fattori: il primo, come la natura finzionale del cinema metta in scena il lavoro più che documentarlo, fornendo piuttosto un documento dell’empatia, del riconoscimento emozionale nel narrato; il secondo, come il cinema stesso, nella sua realtà, sia in crisi. Il terzo millennio si è affacciato in forma di mutamento dei linguaggi, dei mezzi di comunicazione, in ogni campo, e l’ultima delle arti, come sempre e da sempre, ha ricominciato a percorrere nuove strade, rilanciandosi nella forma eternamente nuovoantica che la caratterizza. Ciò che accomuna il cinema al mondo del lavoro, al di là del fatto di essere di per sé un mercato, è la sua natura identitaria. Se dunque «Il lavoro è il connotato che più identifica l’individuo, che lo definisce in rapporto a se stesso e agli altri» che «gli offre una direzione di marcia nella società», come scrive Renato Fontana nella prefazione al libro, il cinema è delle arti la più mimetica, quella in cui in modo più semplice, diretto, immediato ci si può riconoscere e la cui fruizione è la più rapida e sintetica. Non potevano non incontrarsi, cinema e lavoro, fin dal primo appuntamento del mezzo cinematografico con il mondo; dunque non è solo una chicca ricordare, come fa l’autore del libro, che «il cinema inizia con il lavoro», con quel primo filmato proiettato in pubblico nel 1895 che mostrava l’uscita degli operai, per lo più donne, dalle officine Lumière: 45 secondi di abiti, cappelli, passi e gesti d’epoca che narravano non l’ingresso in una fabbrica, non la vita al suo interno (per quello bisognerà attendere Chaplin), ma l’uscita, a cui non manca un certo dato fashion perché, accanto alla dolce ingenuità che spesso amiamo trovare in tutto ciò che fu, stiamo guardando una proto-pubblicità che promuove la fabbrica di lastre fotografiche della famiglia Lumiére, e dietro l’apparente spontaneità della fine di un giorno di lavoro, esiste già una regia. Il cinema è dunque legato fin dal principio al mondo del lavoro in quanto lavoro esso stesso e in quanto rappresentazione del lavoro, in termini quasi sempre finzionali (perfino l’Ejzenstein di Sciopero, alternando nel montaggio la repressione della rivolta operaia e i buoi al macello fu tacciato di sperimentalismo). Per questo, per il tempo in cui viviamo, per come ci siamo arrivati, per quanto ancora vi rimarremo, era più che mai opportuna un Guida alla dissolvenza, come viene definita l’introduzione al libro, ma come si può definire il libro intero.
Il suo autore non classifica, non gerarchizza, pur da critico non critica, pur da giornalista di settore in materia di lavoro, non si abbandona alla politica, ma conserva fino in fondo la lucida pazienza del narrare contestualmente: poiché il cinema è arte contestuale, il discorso sul cinema non può che esserlo altrettanto. Scegliendo, con carattere per forza di cose arbitrario, insieme a un criterio di reperibilità dei film per il pubblico di lettori, fra oltre cinquecento titoli visionati, ce ne parla, come di solito non si fa, ce li racconta in trasparenza, evidenziandone il senso più schietto e mettendone in luce quello più intimistico, ci avvicina ai personaggi, ci fa avvertire la loro emergenza. In sei capitoli, tutti, tranne l’ultimo che si muove nell’ambito della metafora, arricchiti da una scheda a cura di un esperto del mondo del lavoro, il testo spazia dalla disoccupazione al mobbing, dalla figura dell’esodato a quella squisitamente, drammaticamente italiana del precario, dedicando un intero capitolo alla figura femminile nel mondo del lavoro: ciascuno, all’epoca in cui spopola, fra gli altri, l’hashtag “#lovemyjob”, si sofferma sulla reazione umana, interumana e psicologica a uno stato di crisi.
“Mi piace lavorare” -per l’appunto- (si) ripete Nicoletta Braschi in Mobbing, “Che giorno è oggi?” chiede Bardem ne I lunedì al sole, giorni di forzata inattività, “Tutti vogliono essere noi” afferma la Meryl Streep-Miranda-Anna Wintour di Il Diavolo veste Prada inducendo in Anne Hataway un processo di metamorfosi lavorativa, mentre nel vuoto di senso della formazione permanente si espleta La legge del mercato e nel “tutti contro tutti” di Due giorni, una notte la Marillon Cotillard che riconosciamo in copertina sceglie, attraverso la sconfitta aziendale, la rivincita morale. Ma c’è spazio anche per la Paola Cortellesi di Gli Ultimi saranno gli ultimi, per l’Antonio Albanese di L’Intrepido e i ricercatori precari di Smetto Quando voglio, senza esclusioni di genere o predilezioni autoriali, il tutto a partire dai disperati spogliarellisti di Full Monty: un piccolo passo indietro per inaugurare il tema cinema e lavoro con uno storico campione di incassi.
La Dissolvenza del Lavoro, nel suo spaziare nella realtà attraverso il cinema e viceversa, non cavalca la moda del tema scottante, ma interviene come esigenza autentica, piuttosto raffreddando la tendenza al frettoloso opinionismo nella lettura del presente e alla superficialità nella lettura delle immagini, dispiegandone il senso con chiara, discorsiva leggibilità fruibile da ogni lettore, nonché con la dichiarata speranza, da parte del suo autore, di essere uno stimolo alla visione e alla seconda e terza visione e così via.
In realtà, una predilezione autoriale c’è, anche se emerge con discrezione: non poteva mancare, ed è piuttosto ovvio, Ken Loach, fra i principali nomi in ambito del cinema sociale e regista d’elezione di Emanuele Di Nicola, che ha dedicato alla sua figura lezioni di cinema in più città italiane dal significativo titolo, che cita Loach stesso, “Sfidare il racconto dei potenti”. Ancora oggi, perfino oggi, una dichiarazione intensa, presa in parola dal regista, che piaccia o meno. Non presa in parola dall’autore di questo libro, che non è una sfida: è un pacifico discorso.
Forse, di questi tempi, la sfida più grande.
Alessia Astorri
(28 Giugno 2019)